sabato, Dicembre 21, 2024

Cromosomi: su Cosmopolis di David Cronenberg

Quel processo di trasformazione dei segni che la filmografia Cronenberghiana porta avanti in modo inesorabile fino ad una riduzione, evidentemente inaccettabile per una certa critica, della massa tumorale "visibile", giunge in Cosmopolis ad una radicalità incompromissoria e durissima; torniamo a parlare di Cosmopolis di David Cronenberg

Nella prima apparizione della “Prousted” Limo, “scatola” mnemonica protetta dall’esterno che nel Cosmopolis di DeLillo consente l’ingresso di schegge cognitive in un’imitazione “bulletproofed” della stanza di Marcel Proust situata a Parigi sul Boulevard Haussman (a questo proposito, Michael Naas ha scritto bellissime pagine nel suo “Derrida From Now on”), David Cronenberg spinge al massimo la separazione tra l’abitacolo e un primo squarcio di città vista attraverso vetri e lunotto come retroproiezione violentissima regolata su differenti livelli di opacità, quasi ad introdurre un viaggio fantascientifico che interpreta e reinventa il “Cyberspazio” DeLilliano.

Cronenberg, come ha dichiarato in alcune interviste, sceglie Toronto, toglie i riferimenti temporali, spazza via i capillari riferimenti geografici Newyorchesi contraendo il circuito in un “Drome” mentale e dislocando all’interno della macchina di Packer azioni che nel testo originale dello scrittore Italo-Americano avevano diversa ambientazione, confermando l’intenzione di sviluppare un testo in-verosimile sulla realtà aumentata.

Quel processo di trasformazione dei segni che la filmografia Cronenberghiana porta avanti in modo inesorabile fino ad una riduzione, evidentemente inaccettabile per una certa critica, della massa tumorale “visibile”, giunge in Cosmopolis ad una radicalità incompromissoria e durissima. Le aporie insistite di M. Butterfly, prima ancora della “commedia” combinatoria eXistenZ,  quella disseminazione del segno di cui parla Sara Del Santo in un’illuminante analisi su Eastern Promises quasi interamente dedicata ai tatuaggi/stigmata di Nikolaj e  pubblicata qui su indie-eye.it, la metastasi in-visibile della scrittura in A Dangerous Method , l’iper-realismo eccessivo e rutilante di A History of violence, vengono stressati al limite nel nuovo lavoro del regista Canadese con una sovrimpressione astratta che mette in relazione parola, segno, corpo attoriale.

I numerosi quadri performativi che DeLillo stesso pare abbia trovato esilaranti nella versione Cronenberghiana del suo romanzo, sembrano una conseguenza estrema dello scontro-incontro tra i fratelli Cusack in A History of violence.

Nell’esagerazione del gesto c’è un lavoro sulla complessità della visione che Cronenberg stesso spiega molto bene durante un’intervista dove si trova a difendere l’interpretazione della Knightley in A Dangerous Method, giudicata estrema e inverosimile: “Ci sono fotografie fine secolo realizzate da uno psichiatra Francese che mostrano l’accuratezza della sua interpretazione (N.d.a. Cronenberg qui parla sicuramente di Charcot e dell’iconografia della Salpetrie, oggetto di indagine anche di Augustine, il notevole debutto di Alice Winocour). E’ un aspetto ignorato dalla maggior parte delle persone e credo che la reazione al lavoro di Keira abbia a che fare con la loro personale idea di recitazione“.

Questo iper-realismo estremo e grottesco che complica la visione, fa pensare alle recenti maschere Eastwoodiane, di cui abbiamo parlato approfonditamente dopo la visione di J. Edgar,  e ancora a quello che si “stacca” dal realismo psichico e performativo dell’attore Lynchiano, per esempio, in un serial prodotto e interpretato da Laura Dern per HBO, il sorprendente e “doppio” Enlightned.

Ecco che il Cosmopolis “falado” di Cronenberg, spegne tutti i riferimenti pre-cognitivi presenti nel romanzo di DeLillo per non farsi tentare da una visionarietà dichiarata, al contrario riallocando la visione in un’arena mentale e sottoponendo la parola ad un continuo rovesciamento di senso, non è un caso che Cronenberg stesso si sia trovato in un’intervista a confutare le analisi dei dialoghi di DeLillo che parlano di riferimenti Pinteriani, a Cronenberg interessa sicuramente l’eteroglossia o la tendenza parodica della parola DeLilliana, gli serve per ridurla ad un sembiante inerte dall’apparenza monodica per poi rovesciarla violentemente in commedia cognitiva che (e dobbiamo operare per sintesi) promana da un’altra eteroglossia di linguaggi, a partire da quello quotidiano, fino a quello filosofico e all’ambito inter-relato dei sistemi di condivisione sociale di massa, tanto che la sua Limo sembra una versione tragicomica e nerissima delle intuizioni sulle “nuvole” virtuali esaminate dal Belga/Canadese De Kerckhove, allievo e successore di Marshall McLuhan.

In questa resa apparentemente “statica” e vitrea del quadro che isola le gag in una riduzione degli elementi visivi (stessa sottrazione operata con Peter Suschitszky sugli sfondi di A Dangerous Method)  si scorge l’origine del recente progetto espositivo curato dal regista Canadese e noto con il nome di Chromosomes, organismi frattalici scansionati su tela  a partire dalla digitalizzazione del repertorio filmografico cronenberghiano ( gli “stills” della testa “in esplosione” di Scanners, i tatuaggi sulle mani di Mortensen….).

In Cosmopolis, al di fuori di interpretazioni sin troppo “romantiche” che si sono lette in rete in questi giorni, il dripping che apre il film e la geometria cromatica di Rothko che lo chiude sono anomalie cromosomiche, altro dagli originali, rovesciamento di quella visione storicoartistica spirituale in uno scandaglio che la ri-vede con il mezzo digitale ed esonda in quello utilizzato da Cronenberg/Suschitszky.

È la Limo di Packer infestata dai graffiti, sono gli oggetti nel barber shop, è l’occhio che si spegne e si accende come un fade dal vetro dell’abitacolo, è la stanza dove Benno e Packer si incontrano, arena accidentata, quadro spezzato, stanza dei detriti dove i volti di Pattinson e Giamatti condividono la stessa posizione in uno spazio reso instabile da aritmie cronotopiche.

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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