In anteprima mondiale per lo SPILL Festival of Performance di Robert Pacitti, quest’anno dal tema “Infections”, il Barbican Centre ha ospitato per due giorni consecutivi il corto Schrei 27, primo “film” ufficiale della straordinaria Diamanda Galás, ideato e realizzato a quattro mani con il regista di Brindisi Davide Pepe. Il progetto Schrei 27 nacque nel 1994 come performance radiofonica commissionata dalla New American Radio di Staten Island e dal Walker Art Center di Minneapolis, dove fu registrato; due anni dopo il lavoro tornò a vivere nelle performance dal vivo dal titolo Schrei X, eseguite in completa oscurità a Portland, New York, Praga e Columbus. Mute documentò l’opera altamente sperimentale di Diamanda, senza dubbio una delle sue più estreme, pubblicandola su disco, mentre nel 2006 e nel 2007 Schrei trovò un’altra significativa collocazione nella rassegna Switch On The Power: Noise and Musical Policies, dove fu curata dall’artista Xabier Arakistain in due location spagnole; sempre nel chiuso di una buia stanza gli esperimenti vocali dilanianti di Diamanda, frutto di un lavoro di ricerca iniziato nel lontano 1979, venivano riproprosti all’audience dal vivo, in quadrifonia, come esempio di rumore “parlante”, forma di espressione primigenia, manifestazione incontrollata quanto la sofferenza e lo strazio, elemento disturbante in grado di intervenire su un sistema o un organismo e di modificarlo. Nasce quindi “postuma” e si alimenta di tali riletture questa collaborazione sinergica con Pepe, attivo come regista indipendente dal 1995 e recentemente alla sessantesima edizione della Berlinale con il film Giardini di Luce. L’incontro tra i due risale al 2004, quando Pepe ottenne l’autorizzazione a riprendere due concerti dal vivo in Italia di Diamanda e lei decise, estasiata dalla vista del corto di Pepe Little Boy e colpita non solo dalle sue capacità registiche, ma dalla sua sensibilità musicale, di sceglierlo
come co-autore di Schrei 27. Dal 1994 ad oggi il cuore del progetto Schrei è rimasto lo stesso e nulla ha perso del suo rigore sperimentale. Obiettivo dell’opera è confrontarsi con lo stato mentale e fisico di un soggetto costretto a subire una tortura mediante manipolazione chimica e meccanica del cervello, soggetto confinato nello spazio asfittico di un manicomio in cui è sottoposto a bagliori improvvisi, elettroshock e punizioni corporali. L’urlo, shreik, Shrei (termine centrale nella tradizione del teatro espressionista tedesco, nato nelle periferie del paese) è un suono corporeo, che descrive, esasperandola, non solo la tortura in sé in quanto sofferenza del torturato, ma diventa mezzo espressivo per devastare la percezione dello spettatore, spinto da una parte alla compartecipazione, dall’altra al rifiuto istintivo della tragedia dell’altro, quasi in risposta a una sorta di meccanismo di autodifesa dall’orrore.
Chiunque abbia una minima familiarità con l’arte impura di Diamanda sa che la gratuità, qualsiasi forma di art-pour-l’art è bandita, dissestata, allontanata come inconciliabile con la vocazione dell’artista a raccontare, vendicare le storie reali di persone e popoli vittime di gravi ingiustizie, gli outcast annientati dalla storia, cui le “songs of exile” di Diamanda sono rivolte. Anche in questo caso dunque non è una situazione estrema ipotetica a servizio della tipica installazione d’arte contemporanea il centro ideale della rappresentazione, ma esempi documentati di isolamento e tortura (la prigionia degli intellettuali comunisti greci sull’isola di Makronisos ad esempio, o gli esperimenti condotti per la CIA dal Dr. Ewen Cameron), in cui per opera di medici specializzati degli ipotetici nemici di stato subiscono traumi finalizzati a una confessione. Nel corto la confessione non viene data, ma si alternano complusioni linguistiche prive di senso a una recriminazione ab alto sempre rivolta al torturato, dove trovano spazio estratti da San Tommaso d’Aquino e dal Libro di Giobbe in cui si parla di condanna, follia e della transizione dalla vita alla morte.
Il lavoro consiste di undici brevi performance per la durata totale di 27 minuti in cui le urla e i devastanti tecnicismi di Diamanda si alternano a uno spoken ora dilatato, ora ai limiti dell’incomprensibile e a porzioni di silenzio, in cui lo spettatore non ha il tempo di riprendersi, ma tende a rimanere pietrificato nell’attesa di ciò che segue. I corpi in scena, complementari nel rappresentare il torturato, sono quelli di Diamanda stessa e dell’attore Salvatore Bevilacqua, sottoposti a un interscambio continuo; notevole la sovrapposizione schizofrenica della mano di Bevilacqua a quella di Diamanda, riconoscibile per le nocche tatuate con la scritta “We are all HIV+”. Pepe costruisce dei piccoli incubi fotografici in bianco e nero per ciascuno dei pezzi, realizzando dei close-ups ossessivi per le singole parti del corpo (naso, bocca, ventre, petto e così via), cui vengono sovrapposte radiografie, immagini delle corde vocali della stessa Diamanda scattate da un medico (interessato ai loro movimenti durante le sperimentazioni dell’artista), bagliori improvvisi alternati a buio assoluto, creando un effetto disturbante che si spinge oltre l’allucinatorio. A unire i singoli pezzi sono dei brevi intermezzi stranianti in cui disegni e dipinti di Diamanda raffiguranti volti e corpi dalle linee distorte, ispirati a esecuzioni militari, oscillano e si compenetrano per poi scomparire nell’oscurità.
Mentre questi disegni si intrecciano fugacemente creando un formicolio sullo schermo, una rumoristica industrial, quasi il baccano di trapani in azione, conduce alla scena successiva. E proprio uno degli elementi più riusciti in questa unione “impossibile” delle immagini con la performance terrorizzante di Diamanda è l’uso delle distorsioni sonore, cui ha contribuito Dave Hunt (già con Diamanda in Litanies of Satan), ma spesso realizzate da Pepe usando i rumori generati dalla macchina da presa stessa. Il termolio della carne, della voce, delle luci e dei rumori cala in una dimensione disturbante la precisione della fotografia del cortometraggio, in cui le parti del corpo inquadrate raccontano la devastazione pur esibendo in se stesse la propria bellezza. Esse esprimono la violenza della costrizione, in cui il corpo diventa l’unica forma di resistenza a disposizione: il soggetto è ridotto alla sua superficie. Il tormento interno, di per sé inattingibile, trova qui invece la sua forma di espressione esasperata nel sonoro, mediante la vocalità di Diamanda Galás, che essendo unicum assoluto rende a sua volta il corto un unicum in cui le due arti si incontrano. Tre momenti nel corto colpiscono in particolare: la figura torturatrice, impersonata da una Diamanda chiaroscurale luciferina, che sobbalza da una sedia deridendo la vittima (e lo spettatore) con l’esclamazione ossessiva “Ok, go!” seguita da una risata disturbante; la conclusiva immagine di tortura mediante soffocamento, in cui il volto dell’artista è compresso sotto uno strato di cellophane, e il pezzo centrale Cunt, in cui la voce di Diamanda raggiunge un livello di strazio martellante, ai limiti dell’insopportabile, e l’immagine di due strati di carne che si congiungono e si aprono violentemente, controparte visuale fin troppo vivida delle parole, sembra riferirsi alla tragicità pulsante della violenza sessuale. Schrei 27 è un’opera complessa, che rende piena giustizia agli obiettivi dichiarati dall’artista e articola ulteriormente un lavoro di ricerca che chi si imbatte nella sola registrazione su disco fatica a collocare. Lontano da pretese documentarie, nasce e funziona come forma d’arte in cui suono e immagini, suono e corpo, non sono giustapposti, ma si fondono con una violenza e un’energia peculiari, in cui il “vocal terror” di Diamanda si riconferma uno strumento d’eccezione per scuotere le menti
Giuseppe Zevolli