Daydream Nation è il recentissimo debutto alla regia del Canadese Michael Goldbach, passato per il TFF e co-prodotto dalla Screen Siren Pictures, specializzata in film a basso costo e produzioni televisive, ha avuto un passaggio abbastanza veloce nelle sale statunitensi ed è stato recentemente pubblicato (fine maggio 2011) in versione Blue Ray/DVD.
Goldbach, sceneggiatore per la serie televisiva Odd Job Jack, ha concepito la prima bozza dello script nel 2004, mentre lavorava alla sceneggiatura di Childstar, il film diretto nello stesso anno da Don McKellar, commedia Canadese indipendente dal ritmo adrenalinico, cinica, tirata a lucido e non molto conosciuta nel nostro paese.
Con il film di Mckellar Daydream Nation condivide una cultura narrativa apparentemente simile, soprattutto nella prima parte, quella che risente del flusso di coscienza postmoderno ormai assimilato da buona parte delle produzioni televisive, ma lo sguardo di Caroline (una notevole e allo stesso tempo insopportabile Kat Dennings) supera questo impasse episodico e ci regala una visione crepuscolare sulla provincia, una tenera mancanza di pietà che la rende vicina ai personaggi raccontati da Daniel Clowes.
Nella città dove si è trasferita con il padre vedovo, “un posto incredibilmente amichevole”, come lo definisce lei, “pieno di persone timorate di dio, di ragazzi con la pistola e molti più incesti che in un film di Atom Egoyan” , Caroline porterà avanti una relazione con Barry (un Josh Lucas sopra le righe), il suo insegnante, sfruttando in un primo momento come copertura, il flirt con un ragazzo della sua stessa età, Thurston, uno degli innumerevoli agganci all’universo Sonic Youth di cui il film è disseminato, prospettiva su una ricerca del se che per Goldbach ha un significato non così del tutto citazionistico, tanto da inserire come unica traccia della band americana, Hey Joni, racconto di un’anima adolescente che esplode, spunto narrativo che avvicina la Dennings al ballo solitario di Liv Tyler ma in un contesto che congela le figure adulte in una postura molto più grottesca e mostruosa di quella che sorprende il nucleo famigliare nel film di Bertolucci.
I momenti migliori del film sono proprio quelli in cui lo sguardo cinico diventa un’immagine del proprio dolore, un’incapacità di adeguarsi alle narrazioni altrui o ai ricatti del desiderio; Goldbach è apparentemente spietato nel descrivere l’autismo di Barry (l’insegnante di Caroline) o quello di Enid (la madre di Thurston, una straordinaria Andie McDowell), bambini cresciuti e perduti in un’adolescenza senza soluzione, mentre la crudeltà di Caroline diventa a poco a poco sguardo adulto, crudele ma possibile, osservazione sul mondo che le permetterà di avviare il suo vero percorso di formazione nell’incontro con il serial killer che uccide le ragazzine di Hacksville; un po’ come negli avvitamenti più intimi del cinema di Richard Kelly a cui Goldbach deve più di qualcosa in questa sua prima prova.
Daydream Nation, lasciando fortunatamente dietro di se una parte della patina “indie” che lo confeziona, proprio durante questo incontro straordinario tra orrore e pietà, diventa allora un piccolo film doloroso sul rapporto con la propria morte.