La laudatio di Dresen in occasione della consegna del premio, riccamente condita da estratti di dialoghi da mezzo secolo di cinema tedesco, è stata un fulmine a ciel sereno per molti presenti. Dresen ha sottolineato l’estrema semplicità dell’uomo Kohlhaase e la laconicità dei suoi script, a detta dell’autore “nient’altro che testi scritti per essere filmati”. Che lavorasse nell’entusiasmo illusorio anni Cinquanta, sotto la pressione censoria degli anni Sessanta o nel progressivo disgelo degli anni Settanta-Ottanta, Kohlhaase non ha mai perso il polso della società e delle persone comuni, il gusto di una battuta fulminante o il sapore ipnotico di un dialogo ping-pong che sembra non dire nulla e invece suggerisce tutto quel che c’è da sapere. Il disincanto e le nuove frustrazioni dei tempi nostri gli hanno messo in punta di penna le commedie amare dirette da Dresen, che hanno sbancato il botteghino. Al momento di prendere la parola, Kohlhaase ha ricordato il disappunto provato quando un giornale gli pubblicò la sua prima storia indicando che era stata scritta “dal quindicenne Wolfgang Kohlhaase”. Figuratevi come mi sono sentito quando nelle recensioni di Sommer vorm Balkon leggevo “il film è scritto dall’ormai settantacinquenne Kohlhaase”, ha detto. Ha poi aggiunto che “non valeva la pena” assegnargli un riconoscimento del genere, soprattutto ora che sono tutti morti. Beyer, Wolf, Klein… tutti gli uomini dell’Est, come lui.
Der Aufenthalt è uno dei film più belli e coraggiosi mai prodotti dalla DEFA. A suo tempo avrebbe dovuto partecipare alla Berlinale, ma timori di offendere la Polonia (che stava vivendo un momento politico delicato) convinsero la DDR a ritirare la pellicola. La proiezione in occasione della consegna dell’Orso d’oro alla carriera è valsa come il raddrizzamento di un torto vecchio di 27 anni. Tratto dal romanzo di Hermann Kant, il film narra del soldato semplice Mark Niebuhr in mano ai polacchi, che viene sospettato di essere un assassino delle SS in base a una testimonianza fallace. Per Niebuhr inizia un girone kafkiano che lo porta prima a essere maltrattato e quasi ammazzato dagli altri prigionieri polacchi, poi – dalla padella nella brace – finisce in cella con un manipolo di veri criminali di guerra tedeschi. Niebuhr è innocente, ma visto che tutti sono colpevoli, anche quelli insospettabili, questa sua purezza risulta quanto meno dubbia. Alla fine, dinanzi a prove schiaccianti, verrà rilasciato, ma “non si aspetti delle scuse da parte nostra”, lo ammonisce un ufficiale polacco.
Il paradigma del film è quello del “buon tedesco” declinato secondo la forma mentis della Germania socialista. L’“Ich nicht” di Joachim Fest, l’orgogliosa non-adesione alla follia nazionalsocialista, l’essere eccezione in una società di aiutanti più o meno zelanti calza a pennello il viso di Niebuhr, interpretato da un giovanissimo Sylvester Groth (futuro Goebbels sia in Mein Führer, 2007, sia in Bastardi senza gloria, 2009). Lo scarto fondamentale è che in Der Aufenthalt l’essere tedesco-non-nazi non va a braccetto con forzose dichiarazioni di fede nei confronti del socialismo. Ciò garantisce al film una longevità che buona metà dei film prodotti dalla DEFA non hanno, ancorati come sono alle volubili paturnie del passato regime.
La regia di Frank Beyer è fisica e inappuntabile come sempre. Beyer è l’autore del celebre dramma edile Spur der Steine (1966), bloccato dalla censura, e di due titoli memorabili come Nackt unter Wölfen (1965) e Jakob der Lügner (1974, unico film della DDR a ricevere una nomination all’Oscar), tra i primi ad affrontare, in Germania, il tema dei campi di concentramento e i primi in assoluto a farlo inserendovi dei bambini da salvare a tutti costi. Ogni riferimento alla presunta originalità della Vita è bella è puramente volontario… In Der Aufenthalt la regia descrive la discesa agli inferi di Mark senza una sbavatura o una divagazione. Per assurdo e ingiusto che sia, il “soggiorno” del soldato Niebuhr nel braccio della morte ha l’andamento neutro di un prolungato soggiorno di vacanza. La macchina da presa registra gli eventi senza batter ciglio e si guarda bene dal tracciare una linea tra i buoni e i cattivi, tra la quiete e la disperazione. In questo senso, il film non è né antipolacco né antitedesco (dell’Ovest). È un film contro la demenza del militarismo tout court, graziato dai dialoghi scarni e puntuali di Wolfgang Kohlhaase.