La solitudine del maratoneta. Siamo in Austria, fine anni Ottanta, e questa è una storia vera. Johann Rettenberger (Andreas Lust) è in prigione per tentata rapina. Nelle ore d’aria corre seguendo la rete di protezione. In cella corre su un tapis roulant scricchiolante. Dopo sei anni, esce. Il suo tutore gli chiede che piani ha, come intende guadagnarsi da vivere. Johann, distante, replica che se non ha avuto bisogno di soldi per sei anni, può continuare a far senza. Johann esce, è “libero”. Libero come il Theo (Jürgen Vogel) di Der freie Wille (‘il libero arbitrio’, 2006) di Matthias Glasner, storia di uno stupratore seriale che non può nulla contro le proprie pulsioni, e dopo un calvario di sofferenze proprie e altrui decide di ammazzarsi. Johann condivide con Theo una coazione inspiegabile e inspiegata, e l’amore di una donna che tuttavia non riesce a salvarlo dall’abisso. Johann ha due punti fermi irrinunciabili: deve correre, e corre. Tanto, sempre. Deve rapinare. E munito di una maschera e di un fucile, lo fa. Poi corre via. Il film ci fornisce queste informazioni senza didascalie né commenti a margine. Johann vince un’importante maratona viennese che gli porta in tasca un bel po’ di soldi, eppure continua a rapinare, ad accumulare le banconote sotto il letto. In una sequenza tanto sorprendente quanto significativa, il ladro corridore mette a segno un colpo da centinaia di migliaia di marchi e il giorno dopo ne tenta un altro, lo fallisce, esce di corsa dalla banca ed entra di corsa in un’altra, per poi fuggire col bottino inseguito dalla volante. Una corsa a perdifiato, scavezzacollo, che ha dell’incredibile. Alla fine la spunta lui. Come sempre.
Der Räuber, il rapinatore, è la storia di un uomo solo con una visione della vita paragonabile a un tunnel: sempre avanti in un’unica direzione, poco conta se la luce non si vede ancora. Johann è al contempo un eroe e un caso umano, ed è anche per via del suo isolamento che arriva sempre più stanco alla meta, sempre più rabbioso e provato. Dopo averla fatta grossa, Johann si trasforma da romantico rapinatore mascherato a uomo in fuga nel paesaggio austriaco. Poco prima lo avevamo visto partecipare a una gara podistica in montagna con il via in piena notte: i corridori muniti di lampadine sulla fronte per un attimo erano sembrati una folla inferocita a caccia di un mostro. Ora Johann è braccato e solo, e alle sue calcagna ci sono schiere di poliziotti muniti di torce che setacciano il terreno boschivo. Scene di caccia in alta Austria… e che il regista non dica di non aver visto Scene di cacccia in bassa Baviera (1969) di Fleischmann, perché l’ha visto eccome. Come nel più celebre dei neue Heimatfilme, l’uomo braccato è privo tanto di speranza quanto di innocenza. È un reietto reso ancora più reietto dal contesto sociale in cui vive. La fuga di Johann si fa sempre più ardua e rocambolesca, ma il suo dna di maratoneta tiene botta. Senza che la polizia riesca ad acciuffarlo vivo, Johann crepa a pochi metri dal suo ultimo, inutile traguardo.
Dopo l’ottima prova di Schläfer (2006), Der Räuber conferma il nome di Heisenberg tra i più promettenti del nuovo cinema tedesco, insieme al già citato Glasner, a Christian Petzold, Andreas Dresen e Oskar Roehler (per tacer dei soliti Becker e Akin). Il film è tratto dall’omonimo romanzo (2002) dell’austriaco Martin Prinz, che narra la storia realmente accaduta del cosiddetto “pumpgun Ronny”, il rapinatore-maratoneta che derubò una buona decina di banche viennesi armato di un fucile a pompa e di una maschera di Ronald Reagan (nel film, diversa e impersonale). Oltre alle fughe a piedi – tutte plausibili – e al rapporto sofferto con Erika (Franziska Weisz), della pellicola rimane impressa la radio a tutto volume che accompagna le sue fughe in auto, che a un certo punto regala pure un frammento di I Love You, canzoncina dei Rutles, ovvero la parodia dei Fab Four a firma Eric Idle dei Monty Python. La sequenza della gara in montagna è invece contraddistinta dalla suggestiva Aria di Francesca tratta dall’opera dantesca di Marco Frisina. Der Räuber è un film onesto e ben riuscito, forse un po’ troppo “medio” nella prima parte e un po’ troppo piagnone nel finale, una conclusione che forse meritava maggiore sobrietà. Nel complesso, tuttavia, la storia arriva allo spettatore senza filtri. Ed è una storia con la quale vale la pena confrontarsi.