venerdì, Novembre 22, 2024

Detective Dee e il Mistero della Fiamma Fantasma di Tsui Hark (Hong Kong, Cina 2010)

Negli ultimi 15 anni circa, il cinema di Tsui Hark ha dimostrato in più di un’occasione, un raffreddamento dell’ispirazione, quando non una vera e propria crisi, in certi casi. In questo periodo, abbiamo visto il regista alle prese con vari esperimenti (in questo ambito sono degni di nota il wuxia Seven Swords [2005] e la commedia al femminile All About Women [2008]: prodotti buoni ma non eccelsi), spesso interessanti, ma lontani dai suoi momenti artistici più felici. Che fare, dunque, per uscire da questo vicolo cieco? Ripensare i propri natali cinematografici. Nel ’79, Tsui Hark si faceva conoscere con The Butterfly Murders, un wuxia che interseca il giallo investigativo e l’horror, stabilendo un singolare rapporto con la lezione di King Hu (maestro con cui i registi innovatori di quegli anni spesso si sono confrontati). Da lì in poi, sarebbe diventato una delle bandiere più rappresentative delle new wave hongkonghesi: genio eclettico – oltre che nella regia, impegnato anche sul fronte produttivo – dalle qualità trasversali, capace di utilizzare un genere come recipiente dentro cui far reagire ingredienti eterogenei, al fine di rivitalizzarlo e trasfigurarlo. Se l’anima di Detective Dee e il Mistero della Fiamma Fantasma è in dialogo con quella di The Butterfly Murders, il “corpo” sembra relazionarsi con l’impasto fantasy di Zu: Warriors from the Magic Mountain (1983). Del film d’esordio, Detective Dee conserva il gioco delle illusioni, delle maschere, e varie attinenze metaforiche riguardanti la politica. Tsui Hark imbastisce un quadro all’insegna del prodigioso e dell’arcano – con false piste e personaggi a doppio strato – per poi additarlo nel suo inganno: come a dire che dopo aver irretito gli occhi con un trompe l’œil, lo si va a tastare con mano per dimostrare che si tratta di una superficie dipinta, in due dimensioni. Le misteriose morti per autocombustione su cui Di Renjie deve far luce per conto dell’imperatrice Wu Zetian, vengono spacciate per “punizioni soprannaturali” con lo scopo di coprire certi intrighi oscuri. Stando così la faccenda, si può ben intuire che Di Renjie, nel sciogliere un caso, contemporaneamente mette a nudo tutti gli spietati calcoli politici delle fazioni tra loro avverse: dall’Imperatrice che vuole difendere con le unghie e i denti la propria carica (di prima donna al comando del Celeste Impero) ai dissidenti che tentano il golpe nei modi più ingegnosi possibili. Come già detto, sono presenti anche dei tratti ispirati a Zu: Warriors from the Magic Mountain, film chiave degli anni ’80 con cui Tsui Hark ha rivoluzionato i caratteri fantasy del cinema hongkonghese, ed ha fornito l’input a Carpenter per l’eccentrico Grosso guaio a Chinatown (1986). Stiamo parlando di metamorfosi corporee, di cervi parlanti manovrati per mezzo della magia, di un segmento in una spettrale caverna sotterranea mèmore delle peripezie di Adam Cheng e Yuen Biao all’interno della montagna magica, e di una Li Bingbing che col suo personaggio dalla bellezza algida e dall’indole marziale non può che far pensare a quello di Brigitte Lin. Lo sviluppo narrativo è prova della maestria di Tsui Hark, che percorre vie labirintiche con impeccabile fluidità, regalando quel piacere “da romanzo”  per cui si resta rapiti dalla vicenda in ogni suo passaggio. Possiamo finalmente dire che Tsui Hark ha ritrovato la verve giusta con un lavoro eccellente che presumibilmente inaugura un nuovo scintillante corso.

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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