E’ in questo momento e in questo luogo che s’intrecciano i destini di diversi personaggi che saranno accomunati dalla sciagurata circostanza: Luca (Elio Germano), un giornalista della Gazzetta di Bologna; Anselmo Vitali (Renato Scarpa), un ex sindacalista; Alma (Jennifer Ulrich), un’anarchica tedesca; Etienne (Ralph Amoussou), un parigino dei black bloc e molti altri.
Diaz, l’ultimo film di Daniele Vicari, esordisce con una sequenza a ritroso: una bottiglia in pezzi che si ricompone e torna nella mano di chi l’ha lanciata. Un segmento che anticipa la struttura del film: l’assalto notturno è il punto di rottura della narrazione, il momento in cui il regista ritorna agli eventi di poco precedenti, assumendo i diversi punti di vista delle persone coinvolte, di chi, tra le mura della Diaz, è ignaro della imminente aggressione e di chi la sta invece rapidamente pianificando dentro il comando di polizia.
Vicari si concentra sull’orizzonte degli eventi, prende di petto l’affaire Diaz fissandosi sui fatti incontestabili, senza verbose e digressive interpretazioni politiche, e smuove le coscienze attraverso un linguaggio visivo secco e crudo, che sa rendersi convincente grazie alla verità del sangue, delle grida e delle stigmate sui corpi dei personaggi: proprio come la cicatrice che deturpa il volto niveo di Jennifer Ulrich, la ragazza che, nel finale, soffoca il suo sorriso di speranza in un’ombra d’inquietudine destabilizzante.
Si tratta di un film animato da un’energia furente, mossa dall’indignazione per un misfatto rispetto al quale in pochissimi tra i responsabili hanno pagato, e al tempo stesso da una severa lucidità che evita con accuratezza la facile antinomia buoni/cattivi, il didascalico e molti luoghi comuni che nell’ultimo decennio hanno alimentato tanta stampa di casa nostra. Una denuncia totale per una guerra urbana tra le forze dell’ordine e i black bloc, della quale, purtroppo, hanno fatto le spese i manifestanti civili. La sostanziale pariteticità dello spazio concesso agli attori (tutti ben diretti) con un coro unico e compatto dove tutti, alla fine, sono dei comprimari, conferma ulteriormente l’assunto su cui Vicari ha deciso di costruire il film: l’utilizzo del cinema per fare denuncia, evitando che quest’ultima si riduca a un pretesto per far spettacolo. Un merito non da poco, di questi tempi.