Non può certo bastare il sostegno sonoro di Forget About dei Kyddicar a salvare da un’inevitabile deriva pecoreccia il debutto dietro la macchina da presa di Elisabetta Rocchetti, anzi ci si chiede, oltre alla sacrosanta compravendita delle edizioni, uno dei percorsi alternativi battuti da produttori e artisti per sopravvivere alla devastazione del mercato musicale interno, per quale motivo un nucleo di musicisti così attento alla qualità si sia invischiato in un progetto dal profilo così basso ma dalle ambizioni tutt’altro che indipendenti sul piano del linguaggio, molto vicino all’universo “antropologico” di Muccino o ai personaggi del cinema di Moccia, nell’incapacità di filmare davvero corpi e maladolescenze. E’ il caso di chiedersi perchè, qualsiasi film medio francofono, penso ad un titolo non troppo esaltante come Simon Werner a disparu primo film per il cinema di Fabrice Gobert, o all’irrisolto Complices dell’esordiente Frédéric Mermoud, sia comunque in grado di avvicinarsi con vitalità e verità a gesti e desiderio senza che questi assumano i tratti di una presenza goffa, pesante, vernacolare, ovvero senza che il peso della simulazione, come avrebbe potuto definirla Bresson nei suoi appunti di regia, trascini tutto quanto nell’abisso di un teatro del ridicolo.
Diciottanni – il mondo ai miei piedi in fondo è un preoccupante trait d’union tra il nostro cinema industriale e quello autonomo nato in seno alle scuole “indipendenti” di Cinema; attraversato da una vocazione mimetica, vive all’ombra del “padre” trasformando l’esperienza dello sguardo in un imbarazzante “giochiamo a fare il cinema?!”.
Allora, le pulsioni gerontofile di Ludovico (Marco Rulli), orfano affidato allo zio tossicomane interpretato da un esilarante G Max dei Flaminio Maphia, a conferma di un sottotesto demenzial romanesco che mette a rischio un po’ tutti i dialoghi del film, sono triturati dalla Rocchetti in un teatrino televisivo che vorrebbe forse avvicinarsi a quello scontro feroce tra l’adolescenza e un reale determinato dagli adulti, in un movimento circolare di corruzione reciproca che osserva due mondi vampirizzarsi a vicenda.
La senzazione è quella di trovarsi di fronte al solito maledettismo di maniera, dove i sentimenti se non urlati come nel cinema di Muccino, vengono ritagliati su uno sfondo inerte che la Rocchetti non volendo o forse non riuscendo a controllare, rende mirabilmente falso, con figure e corpi impermeabili e incomunicanti, collocati su un set che potrebbe condividere l’asetticità inesorabile e seriale di una soap opera. Conviene forse tacere e riprendere in mano un vecchio film di Olivier Assayas, Desordre, anche quello a suo tempo, un esordio.