giovedì, Novembre 21, 2024

Django Unchained: opera mondo, cinema cannibale

Il twang della chitarra del brano di Luis Bacalov, cantato da Roky Roberts, ed i caratteri che aprono i titoli di testa, sono il tributo più evidente all’eponimo referente di Corbucci; il resto, come sempre in Tarantino, è consumato nei termini della fascinazione, dell’omaggio diretto o indiretto: un’inquadratura, un costume, le battute di un dialogo, uno spunto, un’idea. Perchè, Django Unchained non è lo spaghetti western del regista de Le Iene, piuttosto un tributo al genere nella sua totalità, che pare inglobare al suo interno qualunque traccia riguardante il mito della frontiera visto dalla settima arte, riformulato nell’ottica di quella rilettura critica che gli è propria; operando una sintesi tra stimoli diversi, anche contraddittori, e realizzando così la sua pellicola più apertamente e profondamente politica: un caleidoscopio di senso che dalla superficie dell’avventura in costume, conduce all’analisi dell’oggi, attraverso una lettura pluristratificata che si offre come sguardo lucido ed impietoso sulla storia degli U.S.A.
Tarantino impone all’America, con l’uso del sarcasmo, del grottesco, un confronto con le sue macchie indelebili, attraverso il suo stesso prodotto culturale più distintivo ma amplificandolo a dismisura; filtrandolo attraverso la reinterpretazione altra e commistionandolo ai toni della blaxploitation (che ha nel dna i geni stessi della rivendicazione e del riscatto e che nasce anch’essa in un contesto puramente americano), della commedia, dell’azione, del melodramma, sino a giungere alla rilettura metaforica dell’Anello Dei Nibelunghi di Wagner e piazzare come protagonisti due stranieri: un oriundo tedesco ed uno schiavo (cioè straniero nella stessa terra in cui è nato). Il percorso di entrambi, è un lunghissimo viaggio attraverso un metaforico allontanamento da una sorta di originaria purezza; attraverso una terra che è sempre descritta come splendida e suggestiva ma segnata da un’umanità sordida ed ostile, violenta e stupida, ignorante e crudele. Il Dr.Schultz è un sofisticato uomo europeo, elegante, colto, portatore di un sapere illuministico dalle radici antiche, che, come corrotto dalla sua stessa permanenza nel nuovo mondo, lascia la professione per imbracciare le armi e diventare cacciatore di taglie. La lettura potrebbe anche apparire ingenua, tenendo conto del ruolo di primo piano che ebbe l’Europa nella tratta degli schiavi, non fosse che ad ogni momento tutto concorre a ricordare quanto egli sia l’ideale antenato prossimo del colonnello Landa di Bastardi Senza Gloria. Di contro, Django è lo schiavo finalmente libero che assume progressivamente le stesse vesti dei suoi aguzzini e, seppur mosso da presupposti incontestabili, ordisce una vendetta con ferocia uguale e contraria a quella di questi ultimi; integrandosi allo stesso sistema che lo ha privato della libertà; scambiando una schiavitù con un’altra, indubbiamente meno brutale, ma ancora più ipocrita, nascosta e sottile. Perché Django non ha davvero coscienza, la sua è la rivalsa di chi ha subito un torto e cerca giustizia ed una volta ottenuta, indossa simbolicamente gli abiti del padrone: li rifunzionalizza, cambia loro valore, col rischio però di reiterare, presumibilmente all’infinito, gli stessi identici errori. Django ed il Dr.Schultz si sporcano, pagandone lo scotto ed impedendo così alla vendetta, come avveniva già nel finale di Inglorious Basterds, di essere, davvero, catarsi.

La sparatoria a Candyland è diversa da qualunque vista al cinema fino ad adesso, proprio per questo: perché è pirotecnica, tesa e sardonica; perché ha dentro Hong Kong, Peckinpah e Van Peebles,almeno quanto ha dello stesso Tarantino,senza essere nessuno di questi; perché in pochi minuti spezza e riprende il ritmo in una nevrosi sepolcrale che ha dell’incredibile (grazie anche al montaggio superlativo di Fred Raskin che, per la prima volta, sostituisce la fedele Sally Menke, scomparsa da poco) ma è anche, e soprattutto, carica di una struggente inedita consapevolezza, è drammatica e malgrado tutto è senza eroi; più vicina a Carpenter o Romero ma con quelle riprese dall’alto, con la spremuta di sangue ancora in atto, che è il prefinale esatto di Taxi Driver: quindi annichilente e spietata. (continua nella pagina successiva…)

Alessio Bosco
Alessio Bosco
Alessio Bosco - Suona, studia storia dell'arte, scrive di musica e cinema.

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