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Django Unchained: opera mondo, cinema cannibale

Se Django Unchained porta i segni del western di casa nostra, quindi, lo fa a livello di approccio, che è assolutamente libero, con l’intenzione di mostrarsi come rilettura storiografica degli Stati Uniti, così come molto western tricolore portava al suo interno i conflitti sociali della sua epoca, della sua realtà. Così anche Tarantino priva il west dell’aura mitica, rileggendolo come radice di una società che giudica energicamente e lo fa senza remore, con una causticità tanto feroce quanto amara, toccando gli estremi, ora della comicità demenziale e, ora, della pura tragedia. Alza il dito medio verso Griffith, citando Nascita Di Una Nazione ma svelando il gruppetto di stupidi bifolchi che l’orda del Ku Klux Klan, capeggiati dal recuperato Don Johnson in completo da Colonnello Sanders del Kentucky Fried Chicken,realmente è, in una gag che pare venir fuori da un episodio dei Simpson o da uno sketch dei Monty Python. Al tempo stesso, però, con la tortura di Broomhilda, si produce nella sequenza più realistica e drammatica di tutto il suo cinema e, con tutta probabilità, con le frustate più dolorose che si siano mai viste su uno schermo. Ogni colpo subito da Kerry Washington è vero; ogni suo urlo, ogni lacrima versata, addolora realmente ed il suo volto si staglia in primo piano con la stessa potenza iconica della chioma afro di Angela Davis ritratta su una serigrafia.

Nella figura della moglie di Django, nei suoi ripetuti supplizi, nella sua via crucis, è racchiuso tutto il dolore di un popolo intero, restituito in una forma cruda, diretta e tragica, in un film che, nel suo vagare attraverso i generi, mantiene una linea essenzialmente ironica. Come ha avuto modo di sottolineare Michele Faggi nel suo articolo, l’idea primigenia di Django Unchained risiederebbe nel famigerato e controverso Addio Zio Tom ed in effetti l’aria sardonica da irriverente Via Col Vento (ancora più) cattivo, che animava diverse fasi del film di Gualtiero Jacopetti, è rintracciabile nelle rilassate conversazioni razziste a cena, nella figura della svampita ed apparentemente ingenua Lara ma anche nelle gabbie, nelle maschere da tortura medievale, nella marcia in catene, nel topos della castrazione. L’altro referente, è l’altrettanto controverso Mandingo di Richard Fleischer (anch’esso nella descrizione della tenuta dei Candie; nel sottinteso erotico che lega padroni e schiavi). Ma il flashback con la fuga dalla piantagione è à la Radici, giacché, la televisione, parrebbe avere un’influenza non secondaria sul film; serie come Rawhide o Bonanza sono vicinissime a Django Unchained, tanto che la stessa mise da pistolero del protagonista non è escluso possa provenire da quella del Little Joe di quest’ultima (almeno quanto dal completo da lavoro del Midnight Cowboy di Schlesinger).

Per il suo antirazzista western totale, Quentin Tarantino, sembrerebbe trovare un piano di partenza nell’antiwestern, critico, politico e dissacrante, sorto lateralmente alla Hollywood dei ’70, di autori come Arthur Penn (dal Piccolo Grande Uomo o dal Missouri del quale potrebbero provenire certe dinamiche interne alla coppia dei due personaggi principali o il tono satirico del film) o Sidney Pollack (perché è vero che nelle sequenze invernali c’è Il Grande Silenzio ma non sembrerebbe estraneo neppure Corvo Rosso Non Avrei Il Mio Scalpo, nella stessa misura in cui potrebbe esserci dentro anche Joe Bass L’Implacabile), peraltro tra i primi a narrare in senso antimperialista dell’altra grande ombra della storia americana: l’eccidio dei nativi.

Può darsi non sia da escludere I Cavalieri Dalle Lunghe Ombre di Walter Hill e forse addirittura l’Eastwood de Il Cavaliere Pallido e, perché no, Mel Brooks con la sua rilettura farsesca di Mezzogiorno E Mezzo Di Fuoco, tra i tanti padri nobili del film. Certo, c’è da credere che I Quattro Dell’Apocalisse di Fulci non siano troppo distanti (il villaggio, il bivacco tra le rocce) e che Keoma di Castellari non sia da meno; come di certo Antonio Margheriti de La Parola Di Un Fuorilegge… E’ Legge!, riconosciuto più o meno unanimemente come il primo western con protagonisti neri, e Da Uomo A Uomo di Giulio Petroni (altra ossessione di Tarantino, i cui segni sono riconoscibili anche nei suoi lavori precedenti). Ma, alla fine, tutto è percepito ad un livello subliminale, di pura suggestione ed anche lo spaghetti western, semplicemente, non c’è: è uno dei tanti portati delle smanie cinefile di un regista dalle influenze universali, uno dei tanti che ha da sempre informato le sue pellicole, ma è un sottotesto e non una riproduzione. C’è Corbucci, che, così come Margheriti e Fulci per tanti versi, è altra cosa rispetto allo spaghetti propriamente detto (perché la sua visione fu classica almeno quanto sperimentale) nella citazione del saloon Minnesota Clay; forse nella banda di rednecks tra cui si cela una donna come ne Gli Specialisti e forse nella figura di Calvin Candie si può intravedere in filigrana il Jack Palance de Il Mercenario. Di certo c’è il Burt Reynolds di Navajo Joe, nella cavalcata a pelo con winchester in mano, il respiro ampio del succitato Il Grande Silenzio e l’acrimonia de I Crudeli nello stuolo di personaggi tutti, invariabilmente, in qualche modo, negativi. Ci sono le soluzioni visive, i tagli sghembi di una ripresa, gli zoom, Franco Nero che dice “Lo so!”. (continua nella pagina successiva…)

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