È un vero peccato che l’ultimo film di James Marsh, già presentato alla Berlinale 2012, venga distribuito in italia con un titolo così imbecille. Il gioco a cui forse si allude, con l’idea che si tratti di una spy-story tradizionale, non è esattamente doppio, ma molto più sfrangiato e complesso; mentre Shadow Dancer, il titolo originale, oltre a riferirsi ad un elemento narrativo che non può essere rivelato senza rischiare lo spoiler, nella sua difficile traducibilità indica una qualità spettrale che attraversa tutto il film del regista Britannico.
Marsh, maggiormente conosciuto per il suo lavoro come documentarista, dopo il recente Project Nim, torna in un certo senso nei luoghi e nei modi del segmento diretto nel 2009 per la trilogia televisiva intitolata Red Riding, prodotta dalla Revolution Film e trasmessa da Channel 4. Ambientato nello Yorkshire del 1980, sulle tracce di un omicida seriale, l’episodio di Marsh condivide con Shadow Dancer una certa rarefazione e un approccio vicino ai toni e all’atmosfera della vita locale.
La piccola Colette McVeigh (Andrea Riseborough) osserva, annichilita dal terrore, lo sguardo severo del padre mentre la isola dal resto della famiglia, fuori dalla stanza dove il fratello più giovane sta morendo per il colpo di un’arma da fuoco sparato poco prima per le strade di Belfast; il senso di colpa di Colette comincia da qui, nel 1973 e in una lunga soggettiva con i dialoghi ridotti al minimo che ha quasi la forza interiore di un piano sequenza, la trascinerà fino agli anni ’90 mentre con lo stesso sguardo perso nel vuoto, come un fantasma cercherà di fuggire da un tunnel di emergenza della metropolitana Londinese, dopo aver piazzato una bomba che non riuscirà a far brillare.
Il suo coinvolgimento con l’IRA la porterà dritta negli uffici dell’intelligence Britannica, interrogata da Mac (Clive Owen), un agente della sicurezza che le propone un patto: segnalare tutti gli spostamenti del gruppo radicale Irlandese, legato in parte anche al fratello di Colette, quello sopravvissuto, in cambio di una vita serena insieme a suo figlio, senza rischiare la prigione.
Sono i primi venti minuti del film di Marsh che introducono in modo minimale ma dolorosamente visionario un dissidio che viene declinato in un contesto principalmente familiare e che mantiene solo esteriormente le caratteristiche della spy story; il sonnanbulismo di Colette sembra agganciato ad un passato ormai incomunicabile, cicatrizzato sul volto consumato della madre e nella disfunzionalità della famiglia; ogni sua azione risponde a questa spinta ipnotica e incerta, come se si trovasse sempre nel luogo e nel tempo sbagliato.
La sequenza del funerale di uno dei terroristi, con l’esercito a controllare la zona e i compagni che sparano in aria ai piedi della bara, coglie le donne appoggiate ad un muro, come spettatrici involontarie; è uno dei tanti momenti di scollamento che Marsh filma con un sottile controllo della drammaturgia, esattamente come gli incontri tra Colette e Mac, perchè se da una parte sembra che a regolare il loro rapporto sia un sentimento di protezione da parte dell’agente, questo assume spesso i toni ambigui di una storia d’amore che non riesce mai ad aver luogo, fino ad un rovesciamento sorprendente che riconduce la donna nella sua perenne condizione fantasma. È su questo continuo slittamento che Marsh insiste; lavorando su un personaggio sfuggente, contraddittorio, dilaniato tra più mondi e più tempi, e attraverso il suo sguardo perso nel vuoto, indicando una via salvificamente anti ideologica nella lettura della Storia politica di un paese.