Che l’incontro tra principi delle tenebre stesse avvenendo tardivamente è un dato di fatto; che la misura argentiana non fosse adeguata ad accogliere le istanze gotiche del classico letterario/cinematografico, è lecito pensarlo ma è falso: lo sguardo, la poetica di Argento, la sua capacità di riscrittura critica del senso dell’inquadratura, dei margini del visibile, dei limiti della percezione, del rapporto tra suono ed immagine, della stesa prossemica; la rilettura dei codici, dei tempi e delle strutture della narrazione, hanno fatto del suo cinema, da sempre, luogo-simbolo unico, atto a qualsiasi rielaborazione dell’immaginario (rimane lo sceneggiatore di C’Era una Volta il West e del regista de Le Cinque Giornate scritto a quattro mani con Nanni Balestrini). Ed è innegabile che il suo Dracula sfugga ad ogni paragone con qualsiasi altro conte dei Carpazi apparso sullo schermo; che sia quello apocrifo di Murnau e quindi di Herzog, quello di Browning o di Fischer, di Langella o di Franco e così via, pur se nella consapevolezza, si direbbe, di tutta la storia che lo ha preceduto, traendo da ognuno di essi certe suggestioni necessarie a quel sincretismo che è proprio del suo stile.
Il riferimento più diretto sembrerebbe essere, però, nel bene e, purtroppo soprattutto, nel male, il Bram Stoker’s Dracula di Coppola che, ormai vent’anni fa, rielaborava, non capito, il mito del vampiro in un’ottica post-moderna tanto vicina alla fonte del testo, quanto distante ed immaginifica.
All’esperienza di Coppola, Argento guarda, in primo luogo, sul piano prettamente concettuale (lo scardinamento dei paradigmi del mito del vampiro e conseguente riadattamento in forme e tempi legati alla stretta attualità); in secondo luogo su quello più propriamente filmico (soluzioni, inquadrature, dialoghi, costumi; Unax Ugalde che ricalca il Jonathan di Keanu Reeves; Marta Gastini che fa Winona Ryder che interpreta Mina; la sequenza nella cripta presa di peso dal film del ’92).
E’ chiaro da subito, che l’interesse per il racconto, per lo stesso eponimo protagonista, è secondario, superfluo, tanto che tra tutti, è proprio la figura di Dracula ad apparire meno in scena. Non solo, la storia viene data come già acquisita, tracciata sbrigativamente, ridotta e riassunta saltando a piè pari stralci fondamentali per la comprensione degli eventi, ivi compresa la descrizione delle figure principali; concentrandosi maggiormente, invece, sugli episodi del tutto riscritti e sui raccordi narrativi, trovando in questi, evidentemente, uno spazio meno angusto dello schema stokeriano, dove potersi muovere con assoluta libertà.
Come già fece con Il Fantasma dell’Opera, Argento, affronta il tema classico con spirito avventuroso ed approccio disinvolto. Ma se dal testo di Leroux, trasse un buon feuilleton nero, lussuoso, originale e ben costruito, sebbene sia ancora sottostimato, qui la vera attenzione sembra risiedere nello studio sul formato, sui formati, dell’immagine: l’uso del digitale, l’intera ricostruzione del set, il taglio da videoclip, lo stesso 3D, dicono del tentativo di Argento di una nuova riformulazione all’interno del proprio specifico linguaggio. Un linguaggio, che in realtà non si è mai adattato del tutto ad una formula ma che, al contrario, è continuamente riuscito mutare, pur se all’interno di uno schema ben riconoscibile, a sprezzo di ogni rischio, anche a costo di adombrare quel mito, talmente ingombrante che, nel tempo, ha superato l’oggetto stesso della sua venerazione. L’Argento di Suspiria e Profondo Rosso è, infatti, in un stato di grazia che non può essere slegato dal suo tempo; che è cioè il prodotto di una serie di contingenze, reinterpretate da un autore all’apice della sua giovinezza artistica. Quello successivo di Tenebre, Phenomena, Opera, giù sino ai bassifondi de Il Cartaio e al tonfo secco di Giallo (ad oggi il suo film peggiore), è invece un autore, che, sì, va prosciugando poco per volta la sua vena, ma che, sebbene i valori culturali che lo informano sono legati ad un periodo storico ormai trascorso, di cui è stato tra i massimi interpreti, allo stesso tempo studia, reinventa, sovrascrive, ricostruisce ad onta di una critica che lo vuole costretto in eterno ad un confronto impari con i propri stessi capolavori.
Di buone intenzioni, però, si muore ed è risultato chiaro sin dai primi video circolati in rete, che quello che poteva fare di Dracula 3D un esperimento ardito e significativo, specie in seno alla sua specifica grammatica, ha rivelato le falle di un’operazione sbagliata sin dalle premesse, per quanto affidata ad un gruppo di lavoro di pregio composto da collaboratori storici del regista romano: Sergio Stvaletti che cura gli effetti speciali; Claudio Simonetti ovviamente alle musiche; Luciano Tovoli come direttore della fotografia. Sarebbe impossibile, se non osservando il risultato dai suddetti presupposti, accettare una confezione più adatta ad una piccolissima produzione indipendente che al regista de L’Uccello dalle Piume di Cristallo. Sarebbe sconcertante accettare un risultato tale, se non considerandolo frutto di un tentativo malriuscito, in particolare se raffrontato anche solo ai risultati più che dignitosi, ottenuti lavorando sulla medietà televisiva di Masters of Horror, in tempi ancora abbastanza recenti.
Cosa stia tentando di dire, oggi, Argento, non può essere chiarito da una pellicola che, da un lato porta i limiti del suo cinema alle conseguenze più estreme (precarietà, difficoltà nella direzione degli attori, inconsistenza dei dialoghi) e dall’altro annulla quanto di grande ebbe da esprimere in passato, procedendo su una china, si direbbe irreversibilmente, discendente, che procede almeno da Trauma ma che potrebbe farsi ricondurre anche a molto prima, sino a rischiare di far rivedere l’intera carriera del regista, come una lunga inesauribile discesa che oggi va sprofondando tra le sabbie di un prodotto che si distingue per la messinscena poveristica e confusionaria; scarna e disadorna come mai, neanche nei suoi episodi meno riusciti; scadente spesso nel comico involontario (non aiuta, in questo, ritrovarsi Franco Ravera nelle stesse vesti talari di 456) se non proprio nel ridicolo.
Lo stesso uso del tanto urlato 3D, talmente essenziale nelle intenzioni da connotare lo stesso titolo, si rivela spesso un giochetto di piani sovrapposti di scarso valore (come neanche nel Dolce Remì della nostra infanzia), con espedienti di grana grossa come i veloci avanzamenti frontali a tutto schermo, le spade in prospettiva, l’insetto scoppiettante in primo piano ed il tentare, insistentemente, di far emergere le grazie procaci (buone e benedette per carità) della bella Miriam Giovanelli, con provocatoria appendice freudiana nelle nudità di Asia in tinozza da decamerotico. E tentando pure di rompere definitivamente la tradizione dell’Argento sessuofobo, con una scena d’amplesso a tre dimensioni come mai se ne erano viste nel suo cinema e che risulta infatti glaciale e gratuita. Altrove è un proliferare di fondali cartonati e brutte grafiche digitali, come l’iniziale volo radente tra i vicoli del paese ridisegnati o il castello del conte Vlad le cui scenografie fittizie, finiscono per somigliare alle pareti scrostate dei miserrimi interni del palazzo di La Morte Ha Sorriso all’Assassino di Joe D’Amato. Per non dire dell’incoerenza degli stessi effetti speciali, affidati all’ottimo Stivaletti, che nelle manifestazioni del vampiro variano da una buona metamorfosi da lupo; ad una suggestiva ma incompleta ricomposizione da uno sciame di mosche, per terminare in fulminee apparizioni dal nulla che, malgrado possano anche essere lette come un tributo al cinema fantastico delle origini del muto, lasciano davvero esterrefatti per la loro pochezza. Più riusciti sono i momenti splatter, forse da ascrivere tra i più violenti di una filmografia che non ha certo lesinato in liquido ematico, anche se, purtroppo, questa volta, del tutto fuori luogo. E, per quanto ci si voglia trattenere dall’essere irrispettosi nei confronti di un artista comunque esemplare, spesso geniale, dalla storia lunga ed importantissima, fondante per tutto il cinema di paura degli ultimi quarant’anni, al punto da divenire il suo stesso nome aggettivo con cui identificare uno specifico approccio alla materia orrorifica: l’amantide gigante è davvero da non crederci…
Non è da sottovalutare, però, la presenza alla sceneggiatura, accanto allo stesso Argento e al fulciano Antonio Tentori (a sua volta dietro il pessimo Demonia), di Stefano Piani, già autore e sceneggiatore di fumetti per Bonelli (Nathan Never) come per la Disney (PK). Ed in effetti, per tanti versi, non è difficile riconoscere, nei quadri animati di Dracula 3D; nella sua eccessiva stilizzazione; nelle sue sintesi esasperate, così come nei suoi parossismi, nei suoi mostri e nel suo profluvio di sangue, le tavole o addirittura le singole vignette di un fumetto (influenza peraltro non estranea al cinema argentiano da sempre). Da questo, ennesimo, punto di vista, la pellicola assumerebbe un senso ancora diverso che però, da solo, non basterebbe a risollevarne il giudizio.
Va detto che gli stessi attori non riescono a convincere a pieno; nessuno escluso. Thomas Kretschmann (già killer ne La Sindrome di Stendahl) è il Dracula meno efficace mai visto: statico, praticamente inespressivo e marmoreo per buona parte del film (sfuriate ringhiose escluse) per poi divenire d’un tratto, e senza un apparente perché che non sia sottinteso a chi conosce già lo sviluppo degli eventi del romanzo ma totalmente disorganico alla realtà del narrato, un conturbante, tormentato e fascinoso conte rumeno, capace pure di sedurre una Mina inconsistente ma innocente come un giglio. Meglio non fa il povero Rutger Hauer, che sembra ancora non essersi ripreso dal Barbarossa di Martinelli, con il suo Van Helsing che, a conferma della tendenza a mettere da parte ogni psicologia, non ha di certo lo spessore che si converrebbe al personaggio. Sugli altri è meglio stendere un velo pietoso.
Lo sguardo del grande Dario non perviene, non esiste; si tenta di reperirlo invano, a malapena, in certi estetizzanti notturni azzurrati, se si vuole alla maniera di Tenebre, ma in realtà non c’è. Si assenta, negandosi anche quelle prestazioni straordinarie, quei buoni esercizi di stile, ancora rintracciabili in lavori altrimenti mutili come Non Ho Sonno o lo stesso La Sindrome di Stendahl. Privando il suo pubblico, non solo della minima tensione ma anche delle giuste atmosfere del gotico.
Accanto alle inarrivabili nefandezze di Giallo, Dracula 3D costituisce il pessimo dittico di un autore che appare smarrito, confuso, alla deriva. Forse un autore alla ricerca di una via alternativa per il suo cinema, che anche quando si è espresso nelle sue forme più riconoscibili ed a lui congeniali, negli ultimi anni, si è rivelato poco a fuoco (La Terza Madre). Forse un autore alla ricerca di un terreno nuovo, sostanzialmente diverso, ma dal quale, ad oggi, niente di positivo è riuscito ad emergere. Nel suo cercare una sintesi tra modelli visivi differenti, Argento inscena il conflitto terminale tra un cinema di genere ormai arresosi alla prepotenza dei nuovi supporti dal formato ridotto (pc, palmari, tablet, smartphone, ecc.) ma che nondimeno, sfruttando le antiche potenzialità illusorie dell’effetto ottico, si continua ad offrire, comunque, come esperienza da grande schermo. Fallendo.
Eppure, a brevi tratti, è ancora possibile rintracciare della vita; come le scene diurne per i boschi con l’inseguimento del branco di lupi: chiare, di buon ritmo, dalle inquadrature ben riuscite. Tali da far credere che il cinema argentiano possa avere ancora la possibilità di una rinascita, che non sia condannato a continuare a muoversi in eterno nello stato di non morte in cui sembra vessare al momento; uno stato che in questo Dracula non poteva trovare migliore rappresentante. Nella speranza che non sia ancora giunto il momento di dover esclamare con mestizia: è morto Argento, viva Argento!