Fa una certa impressione pensare che Jean Vigo aveva appena tre anni più di lui e che André Bazin era più giovane di dieci anni. Provate un po’ a immaginare che effetto farebbe oggi vedere Manoel passeggiare a braccetto tra Jean e André nei paraggi di qualche festival, a testimoniare il loro essere lì da un secolo a farla franca, in barba a tutti i bacchettoni di ogni ordine e grado. Non è così, ma contentiamoci, perché almeno uno c’è e continua a farla franca. Non immaginiamo neanche pensare che cosa potrebbe fare oggi Vigo con il cinema, né cosa ne scriverebbe Bazin, ma MdO sì. Il suo lavoro è sotto i nostri occhi, disteso lungo un secolo: due lungometraggi (Aniki Bóbó, Acto da Primavera) e una decina di corti (alcuni magnifici: O Pintor e a Cidade, A Caça) in quarant’anni e tutto il resto, ovvero quasi tutto, dai sessant’anni in avanti. Ecco perché per cogliere il paradosso di MdO bisogna partire da Vigo e da Bazin. Vigo perché basta rivedersi Douro Faina Fluvial subito dopo aver visto À propos de Nice, e anche Aniki Bóbó dopo Zéro de conduite. Quanto a L’Atalante, con Amor de Perdição ne avrebbe girato la versione nera e dissociata, con i fantasmi che appaiono e svaniscono sulla nave invece che sotto un’acqua diventata nerissima, attraverso cui non si riesce a vedere più niente. E Bazin? MdO lo ha incontrato e ospitato, verso la fine degli anni cinquanta, quando i suoi progetti cinematografici restavano sugli scaffali dei burocrati di Salazar e dunque non gli restava altro da fare che gestire l’azienda di famiglia. Sono gli anni di O Pintor e a Cidade, breve film su un pittore di Porto in cui le inquadrature, per la prima volta a colori, iniziano a durare più del necessario. Perché il colore dà sì forza all’immagine, ma si divora il tempo, che sullo schermo deve essere restituito nella sua pienezza. Intanto Bazin scriveva uno dei suoi saggi più belli su Le mystère Picasso, altro film fatto di pittura, colori e durate. E come la pittura, anche la letteratura e il teatro sarebbero poi caduti dentro la macchina-cinema di MdO per formare opere-mondo come Acto da Primavera, Amor de Perdição, Le soulier de satin, Vale Abraão, Palavra e Utopia. Sempre all’insegna dell’imperativo baziniano dell’impurità: il cinema, ultimo arrivato al simposio delle arti, deve mettere in gioco la sua natura epigonale.
MdO è l’ultimo esponente di una generazione che ha considerato il cinema come pensiero critico sul mondo e sulla cultura, come modalità peculiare di riflessione che il Novecento si è dato. Come Vigo, come Buñuel (non fosse che per Belle Toujours o prima ancora per il cambio di attrice in Vale Abraão), è un cineasta dell’occhio. Che, come scriveva Breton, vive sempre allo stato selvaggio. Così è in MdO, che è lo stato di natura del cinema, nel senso in cui si può dire che Hollywood ne sia stato il momento di civilizzazione. La forza dell’inquadratura oliveiriana è lì a testimoniarlo: soggettive e oggettive sfalsate, giochi di specchi, sguardi che non si trovano. Basta prendere uno qualsiasi dei suoi film e soffermarsi sul lavoro della mdp, ora bloccata nella sua fissità, ora pronta a sciogliersi in bellissime carrellate, come quella dell’aranceto in Vale Abraão, che Fuori Orario ci ha fatto ormai imparare a memoria. Di mille altri preziosi momenti è fatto il cinema di Oliveira, la ruota che gira di O Dia do Desespero, gli specchi di Francisca, i paesaggi dal finestrino di Vale Abraão e O Princípio da Incerteza…
E allora, per i cento anni di MdO, ciascuno veda o riveda le immagini e i film secondo la chiave di accesso che più gli aggrada. Quella autobiografica, che obbliga a rimontare la filmografia del regista, a partire da Porto da minha Infância, a passare il testimone alle comparsate da gagà in A Canção de Lisboa e alle sinfonie visive di Douro Faina Fluvial, fino ad arrivare ad A Visita – Memórias e Confissões, misterioso film testamento degli anni ottanta girato per una posterità che abbiamo già lasciato alle spalle. Quella storica, con il florilegio di sconfitte militari di Non ou a Vã Glória de Mandar, le utopie di O Quinto Império, le rivoluzioni di Amor de Perdição, l’Europa allegorica di A Caixa. O, ancora, quella territoriale, che invita a viaggiare dal nord del Portogallo (Viagem ao Princípio do Mundo, Acto da Primavera) verso la valle del Douro (Vale Abraão), la colta Lisbona (Lisboa cultural), poi la Francia (Je rentre à la maison, A Carta), il Mediterraneo (Um Filme Falado), le Americhe (Le soulier de Satin, Palavra e Utopia, Cristóvão Colombo – O Enigma).
(A proposito di Portogallo, João César Monteiro asseriva, ai tempi di O Passado e o Presente, che MdO fosse un cineasta troppo grande per un paese troppo piccolo e che, di fronte all’impossibilità di annettere nuovi territori – tramontata l’era delle grandi conquiste – doveva accontentarsi di farlo a fette per poterlo presentare al pubblico educato e acculturato della Fundação Gulbenkian).
E poi l’intera cultura occidentale (in quell’operazione radicalmente anti-postmoderna che è A Divina Comédia, rilettura di Dostoevskij, Nietzsche e José Régio tra le mura di un manicomio) e il tema universale della passione e degli amori frustrati.
Concluderei la rassegna con l’immagine della Tour Eiffel illuminata a festa per l’arrivo del 2000 (Je rentre à la maison), scanzonato congedo di MdO dal suo secolo, che è anche il secolo del cinema, quello dei Vigo e dei Bazin, ma anche quello dei gagà che andavano al cinema, magari anche solo per guardare tre file avanti.