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Educazione siberiana di Gabriele Salvatores

L’elemento che meglio definisce Educazione Siberiana di Gabriele Salvatores è la molteplicità di forme che stridono e resistono nella giustapposizione. Santini, colombe, pistole, tatuaggi: la storia di Kolyma è un continuo contrasto, la cui concretezza non si pone problemi di credibilità e anzi si regge sull’impatto visivo, eccessivo ai limiti dell’indigestione ma immediato. La trasposizione del romanzo di Nicolai Lilin era un atto dovuto non tanto per il successo editoriale che lo ha lanciato, quanto per il carattere stesso della narrazione: l’immaginario che il libro dischiude diventa per Salvatores una sorta di salvacondotto, il lasciapassare per una riscrittura masturbatoria che vaga a ritroso alla ricerca di condizioni d’esistenza. Kolyma è un giovane soldato proveniente dalla regione indipendente della Transnistria. Salvatores ne racconta la vita senza apparente soluzione di continuità. La ferrea educazione criminale impartitagli da nonno Kuzya, l’amicizia fraterna con Gagarin e il rapporto con Xenia, la fine dell’Unione Sovietica e la nascita di un capitalismo fatto di droga e grattacieli all’orizzonte: nella ricostruzione dell’identità di Kolyma non c’è spazio per psicologismi e tutto si sovrappone in nome di un ritmo che non vuole cedere mai alla sostenibilità della fruizione. La regia non adotta mediazioni: le ellissi narrative, i salti dei piani temporali, il montaggio alternato sono il nerbo del film, nonostante costituiscano mezzi antitetici che rispondono a diverse esigenze espressive. Salvatores non esclude nessuno di questi strumenti e in questa scelta non sembra risiedere una progettualità strutturale, ma piuttosto un intento etico. Così come in passato ha trasvolato i continenti e attinto alle culture più varie pur radicato alla più intima italianità, il regista si immerge nella malavita dell’est europeo del libro di Lilin con la volontà di raccontare qualcosa di suo. In questo modo si spiega il livello di citazionismo che infarcisce il testo di Educazione Siberiana: da Leone ai polizieschi anni 70, il film è un tributo malcelato a quel cinema italiano che non può più essere. Il sostrato di nostalgia e fascinazione è la causa dei forti scompensi di cui il film soffre. Salvatores non focalizza la storia dal suo interno e si disinteressa dei meccanismi emotivi dei personaggi, lasciando che sia la riconoscibilità a connotare l’immagine. La musica alla Bregovic, la violenza alla Kubrick, addirittura il volto di Malkovich sono parte di un corollario di rimandi che disperdono la vicenda di Kolyma. Anche la tipica ironia del regista, la leggerezza con cui arricchisce distonicamente la drammaticità delle situazioni, non rende giustizia alla storia. I personaggi e i luoghi di Educazione Siberiana vorrebbero esplodere per una propria connaturata asciuttezza e invece vengono volutamente banalizzati in modo da permettere una più facile rappresentazione: proprio questo è il luogo dei principali interventi in fase di riscrittura. Così facendo Salvatores ottiene due risultati: da una parte si avverte un’assenza di conflittualità tra le componenti del racconto, dall’altra una resa complessiva quantomeno verosimile. Il regista ricerca e sfrutta la forza delle categorizzazioni e dimostra di essersi posto problemi che nel libro erano del tutto assenti.

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