Lo so che non andrebbe fatto, ma ho la tentazione di iniziare dalla fine”.
Comincia così, Nicolai Lilin, a raccontarci la sua Educazione siberiana, dalla fine.
Una rapida sequenza cecena, breve flash di ordinaria follia a sfondo storico, l’io narrante al centro di un’operazione di guerra appena conclusa, spari ad un nemico mai così vicino: “… potevamo quasi toccarlo con la mano, da così vicino non avevo mai sparato a nessuno”, e rapide pennellate per dire come si sta dopo:
“Ho infilato tutta la testa dentro il bidone, sott’acqua, e l’ho tenuta un po’ lì, trattenendo il respiro. Ho aperto gli occhi dentro il bidone e ho visto buio completo. Mi sono spaventato e ho tirato fuori immediatamente la testa, facendo un respiro profondo. Il buio che avevo visto nel bidone mi aveva fatto un brutto effetto, mi era sembrato che la morte poteva essere proprio così, buia e senz’aria”.
E’ un pugno nello stomaco l’incipit di questo strano libro, scritto in un italiano spoglio, essenziale, morfologicamente depurato dal lavoro editoriale necessario per un russo che ha scelto di scrivere in italiano, lasciato però intatto nella forza scarnificata del linguaggio, immune da artifici retorici.
Un poema in prosa dell’ultimo erede, in ordine di tempo, di una tradizione orale mai tramontata nell’oriente europeo, dai tempi pre-omerici.
Dell’oralità ha tutti i requisiti: la composizione ad anello, la presenza di un patrimonio formulare a cui attingere per dar vita a ritratti di personaggi simbolo di una condizione umana, la ripetitività delle scene.
Inutile dare un giudizio su Educazione siberiana usando i parametri con cui la critica affronta il romanzo moderno, l’opera ne uscirebbe sconfitta.
Sul piano stilistico sarebbe accusata, come puntualmente è avvenuto, di piattezza, carenza di ritmo narrativo, tendenza alla ripetititività. Nell’uso della lingua ci si farebbe fuorviare dalla semplicità delle scelte lessicali e si passerebbe il tempo a chiedersi quanto debba al lavoro di un bravo editor. Il rischio di perdere di vista la specificità di quest’opera sarebbe grande.
Educazione siberiana è un libro che non abbiamo termini per definire, e nel lontano passato da cui trae il suo conio non esisteva il problema della classificazione in generi. Diciamo che è il lavoro di un poeta, nel senso etimologico del termine, che, stante la sua presenza nella contemporaneità, trova il suo sbocco più idoneo nel cinema.
Quanto poi Salvatores sia riuscito nel non facile lavoro di tradurre in immagini reali, cinematografiche, il film virtuale che Lilin fa scorrere pagina per pagina, è quello che impegna una critica comparata che non dimentichi quanta distanza ci può essere fra un libro e il suo passaggio nel cinema. E la distanza c’è. Non quella ascrivibile a tagli di sceneggiatura che modificano parti della vicenda, la riscrittura filmica di un testo letterario gode di ampi margini di falsificazione. Quello che segna la distanza è il linguaggio, il mezzo, segnico per il regista, verbale per lo scrittore, e i suoi esiti sul piano della comunicazione.
L’italiano è la lingua dell’approdo, per Lilin, quella che per lui è “la lingua salvata”, come fu il tedesco per Elias Canetti, ebreo sefardita di lingua bulgara. In Italia Lilin ha trovato la lingua che l’ha accolto, dando voce al suo immaginario. Le vicende dell’ex impero sovietico, la realtà sociale e politica degradata di quel paese, la scomparsa della sua comunità di origine, annientata da un cambiamento epocale che ha sepolto culture autoctone in nome di un’omologazione verso il basso, gli hanno imposto una fuga per la sopravvivenza (sappiamo del suo arrivo in Italia nel 2003 e dell’attività di tatuatore in quel di Cuneo dall’ampio rimbalzo mediatico della sua persona e storia, editoriale e umana).
Nei diciotto anni vissuti in Transnistria si è sedimentato in Lilin un deposito di memorie che oggi oscilla fra l’attendibilità del documento storico e la pura invenzione artistica. Cercare di definire i confini che separano l’uno dall’altra è esercizio sterile, tanto quanto cercare la verità storica nella verosimiglianza del prodotto artistico.
Lilin è l’io narrante ormai adulto che fa riaffiorare l’ io narrante adolescente:“Ho trascritto i ricordi di quando avevo dodici anni. Ho lasciato molto spazio alla fantasia, non ho riportato direttamente la descrizione di fatti reali, quanto soprattutto le memorie dei miei nonni”.
Perché farlo, pur dichiarandosi “non scrittore”? Per testimoniare, certo, e in questo senso l’atto dello scrivere è qualcosa di più che un semplice ricordare e raccontare, è il tributo che l’autore sente di dovere ad una storia di uomini e donne conosciuti, odiati o amati, di luoghi che nel ricordo assumono contorni quasi fiabeschi, di nemici stanati, combattuti, uccisi. Lilin ci porta con l’immediatezza della comunicazione orale dentro la comunità criminale di Transnistria, dove nacque nel mese più freddo dell’anno, febbraio 1980.
“La mia vita era lì, a Bender, con i criminali, e il nostro criminalissimo quartiere era come una grande famiglia”.
In quel mondo scomparso al confine tra Moldavia e Ucraina, nella comunità degli Urka siberiani deportata nel Sud Ovest dell’Unione Sovietica da Stalin negli anni trenta, si compie il suo processo di formazione. Lo seguiamo lungo le pagine che scorrono veloci, attraversiamo i sette nuclei narrativi che dividono il libro senza una precisa concatenazione cronologica (” Il cappello a otto triangoli e il coltello a scatto”, “Quando la pelle parla”, “Boris il macchinista”, “Il giorno del mio compleanno”, “Carcere minorile”, “Ksjusa”, “Caduta libera”)e la sensazione costante è di guardare attraverso una lente che restituisce una realtà capovolta, i parametri con cui siamo educati a valutare il mondo sono regolarmente stravolti e quelli che consideriamo ossimori finiscono di esserlo. “Criminale onesto” è la formula più ricorrente.
L’educazione siberiana è quella che il bambino e poi adolescente Kolima/ Nicolai Lilin riceve dagli anziani, i nonni della comunità, nonno Kuzja in particolare, figure patriarcali che tramandano la loro tradizione guerriera plasmandola su codici etici che della nostra cultura europea, nel versante slavo/balcanico, recuperano le radici millenarie. Il concetto di “civiltà di vergogna” , che Eric Dodds coniò per definire il sistema di valori tipico della mentalità omerica, aiuta a capire l’assetto di questa comunità fortemente gerarchizzata, legata a codici d’onore intransigenti e condivisi, regolatori dell’equilibrio sociale e delle relazioni fra individui.
La vendetta concepita come dovere morale e sociale, la reazione violenta di persone legate all’offeso da un rapporto di consanguineità o amicizia, il disprezzo per tutti i simboli del consumismo, compreso il denaro, che va tenuto fuori dalle mura domestiche, l’antagonismo rispetto ad un’idea di Stato che, nelle forze dell’ordine e nelle istituzioni, si traduce in oppressione e prevaricazione, lo speciale rapporto bambino/adulto, fatto di rispetto reciproco e assoluta autodeterminazione, sono aspetti di uno stile di vita descritto con onestà adamantina e un’innocenza assolutamente straniante.
“C’è chi la vita la gode, chi la subisce, noi la combattiamo” afferma Lilin, e le compagne fidate sono le armi, a caccia nella taiga, come quando i suoi antenati vivevano in Siberia, e fra i grattacieli grigi delle città sovietiche, segnate da bande di quartiere con cui confrontarsi quotidianamente per circoscrivere il proprio spazio. Si respira una dicotomia dolorosa fra l’ampio respiro di scenari naturali, animizzati nel ricordo d’infanzia che passa anche attraverso la favola morale (bellissimo il racconto dei lupi fatto da nonno Kuzja o il cielo azzurro dove il vecchio lancia i suoi colombi), l’ epica lotta per la sopravvivenza nella scena dell’alluvione e le gite in barca con i compagni e la dolce Kuzja, e il tempo in cui, alle foreste ghiacciate e alle acque, si sono sostituiti lividi quartieri e regimi autoritari e corrotti, contro i quali ogni arma è perdente e non resta che la fuga.
Storia di resistenza armata allo strapotere sovietico, “… oro, diamanti, carbone, gas e petrolio siberiano hanno sempre fatto gola ai russi, ma non hanno fatto i conti con la popolazione… i criminali siberiani erano rapinatori esperti i cui avi avevano assaltato per centinaia di anni le carovane mercantili provenienti dalla Cina e dall’India, e non avevano nessuna difficoltà ad assaltare quelle russe” , e storia di una religione del focolare domestico da difendere armati fino ai denti, scrivendone la storia sulla pelle del corpo, tatuato.
“Quando la pelle parla” è il capitolo che introduce ad una pratica antica e sacra, un percorso sorprendente e affascinante alla scoperta di una scrittura pittografica a cui il criminale onesto affida la memoria di sé e della sua sofferenza. Un tatuaggio non si fa, si soffre, e non si riferisce al dolore sofferto nel farlo, ma “…alla sofferenza della vita che gli sta dietro”.
Per mille rivoli e in un continuo rincorrersi di fatti, incontri, cambiamenti di scena il racconto va verso il suo epilogo, fino a ricongiungersi al capo di quell’anello da cui era partito all’inizio, la Cecenia.
“Caduta libera” è il finale, Kolima è arrivato al capolinea, nel corpo sabotatori dell’esercito russo di stanza in Cecenia: “I sabotatori? Cristo Santo, ma che male gli hai fatto? Cos’hai combinato per meritarti questo?” | “Ho ricevuto un’educazione siberiana” ho risposto mentre lui chiudeva la porta.
Un disegno tatuato, ali di aquila aperte, un teschio al centro dell’incrocio di due pugnali è il sigillo della pagina.
Salvatores con il suo film ha fatto un lavoro onesto, sinceramente sentito, nel tentare di riprodurre spirito e immagini di questo mondo.
Non è stato facile, la capacità evocativa delle parole di Lilin è intraducibile con altri mezzi, forse la musica può avvicinarsi, e le scelte sonore del film sono convincenti, come alcuni momenti di splendida scenografia che ben rende il flusso lirico-emozionale dell’opera.
Meno riuscita la caratterizzazione dei personaggi e quello spirito di morte, vita, sguardo limpido, sacro e doloroso sul mondo che aleggia nell’opera di Lilin.
Non siamo dalle parti di Welles o Kurosawa, quando il cinema non deve cedere necessariamente di fronte alla parola scritta.