A distanza di un anno dalla presentazione alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, esce il prossimo 31 agosto nei cinema di tutta Italia El campo di Hernán Belón, documentarista impegnato per la prima volta con un lungometraggio di finzione. La trama del film si riassume brevemente: gli sposi Elisa (Dolores Fonzi) e Santiago (Leonardo Sbaraglia), genitori della piccola Matilda, vanno a vivere in una fatiscente casa ai bordi della civiltà. Qui Elisa avverte un personale sfasamento che la allontana per gradi dal marito e dalla figlia. Osservando la struttura della pellicola, si può individuare un procedimento di osmosi tra la realtà fattuale e il giudizio interiorizzato di tali circostanze da parte dei personaggi. L’ambiguità della narrazione è il punto di partenza prescelto dal regista: all’inizio sembrerebbe prevalere un’atmosfera di matrice horror, che poi si stempera fino a diventare fredda astrazione connotata da venature soggettive. I nessi casuali sono volontariamente recisi dall’autore, affinché lo spettatore possa cogliere sulla sua pelle alcune particolari suggestioni provenienti da certo cinema di genere. Tanti sono gli elementi che condizionano la percezione del pubblico in tal senso: rumori nella notte, personaggi secondari inquietanti, un ambiente ostico e difficile da afferrare. Infatti, il luogo della messa in situazione dei protagonisti è un rudere sperduto nella campagna argentina, dove la gioventù della coppia fa da contrappunto al peso del tempo rappresentato da quest’antica magione. Il rapporto che s’instaura tra la donna e il paesaggio trasuda aspetti di esasperazione, sia in scala macroscopica che microscopica, soprattutto quando l’umore di Elisa va via via precipitando. Il marito tenta a suo modo di decifrare il mutamento di carattere della sua compagna; ma, non riesce a coglierne del tutto le ansie, le frustrazioni, l’insistenza dei suoi gesti dietro cui si cela un’angoscia indicibile. Come nelle opere di Michelangelo Antonioni è l’essere femminile a sentire sul suo corpo il senso della dissonanza, capendo che qualcosa di opprimente ha inceppato quell’ingranaggio perfetto che era la sua famiglia. La prospettiva mortifera assume un peso determinante lungo tutto il corso della pellicola, raggiungendo un apice di didascalismo nella sequenza in cui Santiago torna a casa portando con sé un coniglio ucciso durante una battuta di caccia notturna. In quel momento, l’uomo riapre una vecchia ferita mai completamente metabolizzata da Elisa. In quella lepre incinta morta prima ancora di dare alla luce dei cuccioli, la giovane rivede il suo passato contrassegnato da una gravidanza estremamente difficile e problematica. Il desiderio del coniuge di avere un secondo figlio cozza contro la volontà di Elisa di procreare e, in quest’assenza di futuro che solo una nuova vita potrebbe colmare, traspare una parabola letale che schiaccia la protagonista. Si può dire che con El campo Belón abbia cercato di togliere qualsiasi dimensione cronachistica a un tema come quello della nevrosi e della depressione post-partum. Colpita da simile trauma, Elisa si dimostra assolutamente incapace di trovare un posto all’interno di un ambiente agreste, giacché ripudiando l’istintiva indole materna ha rinnegato la sua stessa natura. L’ingresso di Belón nel cinema di fiction è accattivante grazie ad un’ottima fotografia, alla padronanza dimostrata nell’utilizzazione del set scenografico e alla tecnica impiegata per reinventare e scardinare figure sintattiche tradizionali. Purtroppo, questo atteggiamento registico a lungo andare trasforma l’opera in un puro esercizio di stile fine a se stesso, sebbene condotto con impressionante lucidità per tutti gli ottantacinque minuti di durata. Il difetto artistico del film risiede essenzialmente nel creare attese che con il passare del tempo vengono assorbite nel tessuto connettivo della storia rimanendo svuotate dal punto di vista espressivo.