Visto il carattere del disturbo, condizione preliminare delle sedute è l’anonimato, a cui si aggiunge la totale libertà dell’associato di interagire, parlare, anche senza scendere sul personale, oppure star zitto, andar via o, come capita ad Angélique (ruolo cucito su misura per Isabelle Carré), svenire per lo sforzo fatto di aprir bocca in pubblico. Se capita questo alla bionda Angélique, sciarpone rosso scozzese modello “copertina di Linus”, occhioni sbarrati e sempre in apnea, non va meglio a Jean-René (un Benoît Poelvoorde che, estroverso e “rumoroso” nella vita reale, a quanto si dice, qui sembra tirar fuori la parte più nascosta di sé). Proprietario dell’antica fabbrica di cioccolato di famiglia, sta vedendo i conti in picchiata perché i suoi cioccolatini sono ormai, come dice la grassa cliente della pasticceria del centro, “obsoleti”.
Per salvarsi ha bisogno di idee e qualità,la piccola azienda (quattro dipendenti in tutto) è in agonia e Angélique sarebbe la persona giusta, cioccolatiera geniale ha esperienza e passione, lavorava col massimo cioccolataio sul mercato sotto falsa identità (era “l’eremita di Mercier”, faceva tutto in casa, dribblando felicemente il tremendo contatto col suo prossimo, ed era felice) ma poi il simpatico vecchietto è morto.
Angélique farebbe schizzare le quotazioni della ditta in cima alle classifiche, del cioccolato conosce lo spirito profondo e la rasserenante filosofia, ma quel problemino di timidezza estrema mal si coniuga col necessario ruolo di business woman. Se poi a questo aggiungiamo che il nostro Jean-René è afflitto da medesima patologia, al punto di non riuscire neppure a conversare con una donna senza dover correre a cambiar camicia più volte, tanto copiosa è la sudorazione, capiamo bene che la risalita della fabbrica di cioccolato nel borsino delle quotazioni non è poi così scontata. Mettere insieme le proprie patologie, però, può funzionare, soprattutto se la medicina è quell’amor che move il sole e l’altre stelle che non ha controindicazioni, basta assumerlo frequentemente e nelle dosi indicate, corroborato dalle ben note proprietà antidepressive e, pare, afrodisiache del cioccolato, stando a quel che si sa da Montezuma a D’Annunzio, passando per Casanova. Perciò, dopo un primo approccio a dir poco catastrofico al ristorante e poi in hotel, una volta che la natura si è messa a fare il suo corso e nei due cuori ha fatto divampare la scintilla d’amore, ponendo fine agli ardui funambolismi linguistici e ai teneri tentativi di nascondere quel che a nullo amato amar perdona, finalmente i due emotivi convoleranno a giuste nozze in tight e abito bianco (salvo però scappare insieme all’ultimo momento per campi, via dagli invitati, tutti raccolti in chiesa ad aspettarli).
Una commediola (vezzeggiativo imposto dalla simpatia che suscita) che più francese non si può, non un capolavoro, ma Renoir e René Clair sembrano i padri protettori, Rohmer e Jeunet sbirciano tra le quinte e qualcosa di quella leggerezza impalpabile sulla dura scorza della realtà, insegnata al cinema da Jean Vigo, aleggia qua e là. Meglio sostenuto nella prima parte, il ritmo rallenta nello sviluppo successivo, perde un po’ della verve iniziale e si fa esile nella trama, quasi entrasse anche lui in apnea, ma poi riprende quota e produce momenti davvero esilaranti. L’ambientazione vintage tra anni ’60 e ’70 di fotografia, scene e costumi, ben si adatta al clima di favola che si respira, tutto è paradossalmente rassicurante in questo universo a parte degli emotivi estremi, dove gli slogan di autoconvincimento che recitano come esercizio quotidiano sembrano pian piano tradursi in realtà.
E allora basta dirsi :“Io sono un vulcano, ho fiducia in me, ho bisogno di amici, sono in pace con me stesso”? Certo che no, ma val la pena di crederlo per ottanta minuti, e se per Jean-René e Angélique il rimedio è stato l’amore, per Améris ha certamente funzionato il cinema: “è stato proprio il cinema a salvarmi. Per me è stato uno stimolo, un motore per reagire alle mie paure”.
Parole sue.