giovedì, Dicembre 19, 2024

Ernest & Celestine di Benjamin Renner, Vincent Patar, Stéphane Aubier

Sono due mondi agli antipodi solo in apparenza quello in superficie, abitato dagli orsi, e quello sotterraneo, popolato dai topi. Al di là del vicendevole antagonismo, finiscono in verità per essere speculari.
Sia l’orso Ernest che la topolina Celestine, infatti, faticano a trovare un posto a loro adeguato nella “società” in cui vivono. Artista di strada scanzonato, pasticcione ed emarginato, lui, che vive alla giornata arrangiandosi come meglio può, anche se le sue clownesche perfomance musicali piuttosto che riempirgli lo stomaco gli fruttano multe per accattonaggio; strenua sognatrice, sensibile e ricettiva, lei, che deve difendere la sua passione per il disegno da tutti coloro che la spingono ossessivamente alla carriera di odontoiatra, per la quale non sente alcuna vocazione. Il caso vorrà che Ernest e Celestine si incontrino, facendo nascere un’amicizia in grado di infrangere i reciproci timori, pregiudizi e diffidenze indotti dai loro simili.

Il concepimento per il grande schermo di Ernest e Celestine ha origine nel 2008 –  a otto anni dalla morte della creatrice dei venti libricini illustrati sulle avventure dell’orso e della topolina, la belga Gabrielle Vincent, da sempre refrattaria ai corteggiamenti di emittenti televisive e case di produzione –  quando l’editore, in pieno possesso dei diritti dell’opera, ha dato il beneplacito per la trasposizione filmica al produttore Didier Brunner (Appuntamento a Belleville, 2003). Nel frattempo, per la stesura della sceneggiatura viene coinvolto lo scrittore francese Daniel Pennac, che ha esordito proprio scrivendo libri per ragazzi. E si deve a lui la quadratura narrativa di una storia dal ritmo scoppiettante che procede senza intoppi, in cui l’esaltazione della curiosità intellettuale, l’anticonformismo e il coraggio della libertà come atto di coerenza verso sé stessi fanno da lievito a un impasto da commedia picaresca che guarda a Chaplin.

Ernest e Celestine sono, a loro modo, degli esclusi, renitenti agli impulsi che non siano quelli della loro volontà e dei loro desideri, e se è vero quanto dice Kierkegaard, che l’uomo è Esistenza e dunque individualità in quanto aperto alla possibilità e non determinato dalla necessità esclusiva degli istinti, come gli animali che invece sono Essenze perché meri rappresentanti della specie, allora i due protagonisti sono già umani, a differenza degli altri che rimangono succubi della loro natura. E’ forse uno strale verso quelle scimmie nude fra noi che si considerano troppo frettolosamente umani, senza aver fatto il benché minimo sforzo per conquistare la propria umanità?

Durante le udienze parallele, entrambi i tribunali – di orsi e di topi – s’incendieranno e crolleranno, e solo gli slanci eroici di Ernest e Celestine ammansiranno i blateranti giudici. L’ottuso esercizio impiegatizio della legge e, al suo seguito, la cieca obbedienza della gendarmerie, ritratti con una buona dose di sarcasmo, finiscono per infierire contro i poveri cristi come Ernest (impossibile non pensare al capro espiatorio di professione, Benjamin Malaussène). L’emancipazione da una società omologante si fonda (altra eco del mondo di Pennac) in una sorta di famiglia alternativa i cui membri si scelgono e non si subiscono.

Una convincente risposta europea di fede tradizionalista, quella di Ernest e Celestine, alla instancabile e forsennata corsa tecnologica dell’animazione di oltreoceano. Per il trio di registi Benjamin Renner, Vincent Patar e Stéphane Aubier lo schermo cinematografico è la superficie ruvida di un foglio da acquerello (nella sequenza conclusiva, che accompagna i titoli di coda, si può vedere a occhio nudo la filigrana) dove il lucore cromatico delle tinte, il tratto minimalista del disegno giocano con linee interrotte, spazi bianchi che invadono i paesaggi; evanescenze poetiche che restituiscono la dimensione baluginante della fantasia più delicata e aerea, solleticando l’attività immaginativa dello spettatore, chiamato in causa a completare il quadro.

 

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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