Attenzione OFMCTBI: Oggetto Filmico Mica Tanto Bene Identificato. Mai embargo stampa fu più severo come quello imposto sul messaggio esclusivo di Banksy agli spettatori della Berlinale. Il film è già passato al Sundance ma qua ha la sua prima europea, avvolta da fitte spire di mistero. Il press kit non esiste, o meglio son due foglietti spillati che ragazze sorridenti distribuiscono a chi esce dalla sala, e la fila per entrare è tale da richiedere una proiezione gemella in una sala appena svuotatasi. Strano ma vero, Exit Through the Gift Shop non è una bufala. Il documentario risponde a un paio di domande, la prima delle quali è che cos’è la Street Art. In seconda battuta spiega – a chi non lo sappia ancora, povero! – chi è Bansky, e spiega a tutti chi è Thierry Guetta. Di questo c’era effettivamente bisogno. La prima sorpresa è che gli ottantasette minuti del film si concentrano soprattutto su Guetta, ma neanche in questo caso scatta l’allarme bufala. L’ultima domanda a cui risponde Exit Through the Gift Shop, o meglio, che pone con grande franchezza, recita: come si fa a diventare artisti famosi oggi? Dopo aver visto il documentario, si rivelerà un quesito meno ozioso di quanto si creda. Ma cominciamo dall’inizio. Banksy si presenta nel suo atelier, cappuccio sul capo e voce falsata manco fosse il testimone chiave di un processo antimafia. Blatera, gigioneggia, discute con chi regge la camera e fa capire che più che su di lui, questo film nato spontaneamente parla di un tipo che voleva fare un documentario su di lui. L’allarme bufala si accende di nuovo, accompagnato a sospetti di metacinema o di profondo mockumentary. E invece. Facciamo la conoscenza del baffuto Thierry Guetta, padre di famiglia di origini francesi esperto nello sbarcare il lunario. Thierry passa subito in medias res e racconta la sua prima ossessione adulta: la videocamera. Parte quindi uno sciame di immagini girate ovunque da Thierry. E fino a qui siamo in zona Amator (Kieslowski, 1979), Il cameraman e l’assassino (Belvaux, Bonzel e Poelvoorde, 1992), The Eye (Elliott, 2000) e Capturing the Friedmans (Jarecki, 2003). Ma nessuno ammazza nessuno qua, nessuno spia nessuno. Thierry ha solo la pulsione di filmare tutto e accatastare le cassettine, senza nemmeno guardarle. Un bel giorno, Thierry Guetta comincia a filmare un suo parente, l’artista Space Invader. Un ragazzo che fa piccoli mosaici a partire da cubi di Rubik rotti, aventi la forma degli invasori spaziali del vecchio videogioco. Li assembla e poi li appiccica per strada, nei posti più impensati, ovunque. Viaggia, anche, per esportare i suoi segnali urbani. A questo punto Thierry decide di seguire Space Invader come un’ombra, e il pubblico capisce che cos’è la Street Art. Che non è (più, solo) graffitismo. Sono mosaici, sagome appiccicate alle pareti, è riappropriamento di superfici, scatenamento del ready made nei pubblici spazi, deturnamento del quotidiano. Che per legge è ancora deturpamento. Street Art è stampare poster e acquistare bombolette di giorno, fare bricolage fino al tramonto e di notte vagare come ladri per dare un volto nuovo alla città. Questa vita spericolata diventa la nuova ossessione di Thierry. Dopo Space Invader, Guetta incontra Scepard Fairey, l’autore dell’icona “Obey”, ricavata da un’estrema stilizzazione di una vecchia immagine di André the Giant. L’abbiamo vista tutti, chiedete conferma a google. Scepard è anche colui che iconizzato Obama, trasformandolo in un poster rossoblu con la scritta “Hope”. Thierry svolge un ruolo importante per lui come per un’altra quindicina di artisti mostrati di sfuggita nel corso del film: documenta le loro azioni, il mordi e fuggi dell’arte urbana che rischia sempre di scomparire cancellata da una mano di vernice, staccata dai tutori dell’ordine o semplicemente consunta dai fenomeni atmosferici. Guetta riesce nell’impresa non facile di diventare amico di tutti, e tutti credono che lui abbia intenzione di girare un documentario sulla Street Art, quando invece continua ad accumulare immagini in movimento per la sola goduria di esserci, e registrarle. Ma Guetta non è amico di tutti, perché gliene manca uno. Il pesce grosso. Banksy è un artista britannico che non ha mai mostrato il proprio volto in pubblico. I suoi ratti, i suoi poliziotti che si baciano, le sue azioni duchampiane alla Tate Gallery così come in zone di guerra del Medio Oriente appartengono ormai all’immaginario collettivo. Banksy è l’autore della copertina di Think Tank (2003) dei Blur e la sua mostra losangelina Barely Legal (2006), allestita in un capannone all’estrema periferia della città, ha fatto epoca: 75.000 visitatori per tre soli giorni di esposizione. Banksy è un provocatore arguto e malandrino come Maurizio Cattelan, ben conscio della propria coolness e attentissimo a non fare passi falsi. Finora non ne ha fatti… nonostante sia diventato intimo di Thierry Guetta. Forte del suo ruolo di cameraman degli street artist, Thierry decide di fare un passo in avanti e di montare davvero un documentario sul movimento, Banksy compreso, il quale ripone in lui cieca fiducia da quando lo ha accompagnato in una pericolosissima missione a Disneyland in cui Thierry si è dimostrato all’altezza della situazione, filmando tutto e tenendo la bocca chiusa una volta messo sotto torchio dalle guardie di Topolino. Passano i mesi, e Banksy riceve un film intitolato Life Remote Control: novanta minuti di montaggio rimbambente in cui Guetta ha rimescolato il suo enorme tesoro d’immagini sgranate. Il risultato è penoso, e Banksy scherza nel liberare Guetta da questa incombenza per affidargliene un’altra: andare a Los Angeles e diventare, lui stesso, un artista. Non l’avesse mai fatto. In tutto quel tempo trascorso accanto ad altri artisti, Guetta ha capito molte cose, e decide di metterle in pratica alla grande, tutte in una volta. Col suo consueto stile caotico e schiettamente idiota, da Forrest Gump delle arti figurative, Guetta allestisce una mostra-monstrum intitolata Life Is Beautiful, copiando a destra e a mancina – da Warhol, da Banksy, da Scepard, da tutti. Ci investe tutti i soldi che ha, inonda Los Angeles di manifesti abusivi, si rompe una gamba e chissà come, dio solo sa come, riesce a sedurre la stampa che conta. La mostra è un evento, e Thierry – o meglio: MBW, Mr Brainwash – diventa una star a imbarco immediato. Lui, con quella faccia da Ron Jeremy dei poveri, con quegli occhiali da sole da Joe Rivetto. Ma è vero tutto questo? Oh sì. It’s All True. Andatevi a vedere la copertina del best of di Madonna Celebration. Made by MBW, alias Mr Brainwash, alias Thierry Guetta. Alla fine della corsa, Exit Through the Gift Shop è tutto fuorché un F for Fake dei giorni nostri, un Forgotten Silver della Street Art. È tutto vero, autentico. Azzeccato come la colonna sonora, che offre Tonight the Streets Are Ours di Richard Hawley e brani originali di Geoff Barrow e Roni Size. Sincero e diretto come l’idiozia di Guetta, come lo sguardo basito di Scepard Fairey quando visita la mostra di MBW, come il cappuccio di Banksy scosso in preda all’incredulità. L’artista (regista?) ha ragione quando, nel messaggio introduttivo, definisce il film “uno dei più onesti che vedrete in vita vostra” e ammette che, partito con l’intenzione di fare un film “che facesse per la Street Art ciò che Karate Kid ha fatto per le arti marziali”, a quanto pare ha finito per fare “un film che fa per la Street Art ciò che Lo squalo ha fatto per lo sci d’acqua”. Non sapremo mai se la regia del documentario è davvero di Banksy, ma poco importa, quant’è vero che lui ci mette la faccia.
Exit Through the Gift Shop di Banksy Berlinale 60 – Evento speciale
Banksy è l'autore della copertina di Think Tank (2003) dei Blur e la sua mostra losangelina Barely Legal (2006), allestita in un capannone all'estrema periferia della città, ha fatto epoca; Banksy è un provocatore arguto e malandrino