Il cinema di Joyce Bernal sfrutta le convenzioni di un mondo narrativo logoro e le riduce ad un grado zero della visione; come John Carpenter la Bernal segue il processo produttivo dei suoi film sino in fondo, forte della sua esperienza più che decennale come montatrice; c’è un confine sottile nelle sue commedie che divide sempre l’artificio da un realismo brutale, la banalità dal motto di spirito sublime, la deriva anarchica dalla costruzione del racconto; è probabilmente anche per questo che qualsiasi richiamo ai modelli Statunitensi nella revisione “sintetica” degli anni ’80 potrebbe risultare come il più pertinente almeno per l’attenzione a corpi e superfici, ma anche quello più lontano dai risultati della sua filmografia, in bilico tra deformazione estrema e nonsense ribelle, attraversate come sono da una forza distruttiva che riconcilia l’idea di sguardo come esperienza dello stupore ingenua e complessa; un grado zero come si diceva, una mano tesa oltre lo schermo invece di una centrifuga cinefila puntata dentro il frame. Ci piace molto il cinema della Bernal, probabilmente per ragioni opposte a quelle di una critica “Otaku” pronta ad accogliere il “miracolo” come esperienza esclusiva. Kimmy Dora, per esempio, è al contrario un film violentemente essoterico, senza vergogna si sporca con il decor di un Tv drama, sdipanandosi da una vertiginosa variante sul modello della maschera comica, un processo impietoso di erosione sull’idea del doppio che viene ridotto alla performance di una splendida Eugene Domingo; corpo ingombrante, volto che non teme di rappresentare la purezza attraverso la smorfia demente, slapstick improbabile fuori dalle storie, anche quelle del cinema, che siamo abituati a sezionare come cadaveri. Viva il cinema vivo della Bernal.