Uno specchio legato a fili sottili pende dall’alto, per un po’ oscilla lieve nell’aria, siamo dalle parti di Dalì o Magritte, poi in ripresa aerea l’occhio scende dalle nuvole, giù, giù, fino al verde brumoso dei boschi e al villaggio nordico di ardesia e paglia, carretti rotolanti su selciati sconnessi e muri fuligginosi (una location ricostruita con filologica esattezza a 100 km da Praga) , entra nello studio ingombro, male illuminato e maleodorante del Doktor Faust, al lavoro con l’assistente Wagner. Un cadavere col ventre squarciato è sul tavolo anatomico, un pene è sul tavolo, intestini traboccano, interiora tremolano e sfuggono viscide alla presa. Faust cerca l’anima dell’uomo fra le sue viscere. Verranno ben presto i becchini a portar via la cavia e comincerà allora la peregrinazione dell’uomo all’esterno, fra bettole e viuzze, lavatoi, case e cimiteri, radure boscose e corsi d’acqua scrosciante, un moto perpetuo bloccato nel formato 4:3, quello del muto, dei vecchi televisori, del topo in gabbia. Lenti anamorfiche fondano nuovi criteri di oggettività, tolgono ogni parvenza di naturalismo alle immagini che si riappropriano del loro statuto autonomo, sciolto dalle regole di una visione prospettica che l’occhio giudica illusoriamente realistica (“Chi avrebbe il coraggio di sostenere che La Vergine delle rocce riproduce con esattezza lo spettacolo che vedremmo affacciandoci alla grotta?” (E.H.Gombrich, L’immagine e l’occhio, Phaidon Press Limited, Oxford, 1982, ed Einaudi, 1985, p. 269) , l’impressione prevalente è di claustrofobico procedere verso il fondo, spinti da pulsioni primordiali, risucchiati in una spirale fino alle viscere del mondo, soglia della solitudine e della conoscenza del Male. Faust vagherà prima da solo, poi ben presto in compagnia indissolubile con Mauricius/Mefistofele, demone anomalo, privo del fascino demoniaco per cui è ben noto, reso molto umano dalla deformità più ributtante che spaventosa del corpo flaccido e dai limiti molto evidenti delle sue arti, più canagliesco che luciferino, viscido verme che finirà sotto una coltre di pietre scagliate con un disperato residuo di forza dalla sua vittima, mentre con la voce strozzata avverte Faust di quanto non possa far a meno di lui. Ma ormai l’uomo corre impazzito verso una distesa di ghiacci aguzzi gridando “oltre”, ha strappato il contratto, vuole la sua libertà, siamo dalle parti dell’Islanda, ghiacci perenni e geiser, dalla sommità del mondo potrà Faust fare il balzo verso Dio? No, Dio non è da nessuna parte, il male è ovunque, la scena finisce qui, la trilogia tragica del potere rivela ora la sua connotazione mitica, e non si chiude con il dramma satiresco destinato a diradare con grasse risate la coscienza tragica della sventura abbattutasi sul pubblico del Teatro di Dioniso in Atene. Qui siamo davvero “oltre”. Il Faust di Sokurov sta al Faust di Goethe come l’Oreste di Euripide sta alle Coefore di Eschilo, come gli “eroi vestiti di stracci” del sublime sofista che decretò la morte della tragedia stanno all’olimpica, statuaria grandezza del suo fondatore. L’eschilea, rasserenante capacità di conoscenza attraverso il dolore naufraga nella follia di questo Eracle dei nostri tempi, l’antico eroe invincibile schiantò di fronte a quella parte di sé che non conosceva, abisso disperato che lo sconvolse e lo rese umano, Faust soccombe di fronte al suo limite che segna i confini angusti della sua miseria. “Solo quando un uomo conquista la sua coscienza tragica ci sembra che apra gli occhi sul mondo – dice il filosofo – Ora infatti, avendo coscienza di essere al limite del mistero, nasce in lui quell’inquietudine che lo spingerà innanzi. Nessuna situazione per lui può essere stabile perché niente lo appaga. Con la coscienza tragica ha inizio il movimento della storia, che non si manifesta solo in avvenimenti esteriori, ma si svolge nelle profondità stesse dell’animo umano” . (Karl Jaspers, Über das Tragische, Munich, 1952, p. 18)
Il Faust di Sokurov è oltre la coscienza del tragico. Arca russa è stato forse l’ultimo sguardo su un mondo dove l’arte può ancora salvare e la memoria sorreggere. Quell’ “apro gli occhi e non vedo altro” che risuonava nel buio iniziale era approdato, nel passaggio rutilante della memoria che dava suoni e colori imponendo, però, di procedere ad occhi chiusi, a quel mare metafisico che si apriva dietro il Museo, sfumando all’orizzonte. Dunque un naufragar m’è dolce? Si direbbe di no, Taurus e Il sole hanno riproposto un primo piano spietato sull’uomo, non poteva che nascere un nuovo Faust ed un nuovo trionfo di immagini con cui il regista rappresenta la bruttura e l’orrore del mondo. Faust ha in comune con questi uomini della Storia “l’amore per le parole a cui si crede con tanta facilità e una patologica infelicità nell’esistenza quotidiana”. Questo Faust è distratto da pulsioni terrene, fame, lussuria, denaro, ira. Nulla resta della ricerca di una pietra filosofale che gli dia il dominio sulla vita e sulla morte, il dolore qui non crea conoscenza ma scacco esistenziale Johannes Zeiler (Faust) e Anton Adasinskiy (Mauricius/Mefistofele) prestano volti sconosciuti e bravura indiscussa al loro ruolo, Isolda Dychaux (Margarete) è una presenza angelica e adolescenziale che la fotografia di Delbonnel ritrae con delicato candore. Indagare nel retroterra dell’opera più che trentennale di Sokurov è scoprire quanto ampia sia la sua frequentazione di settori altri dell’arte e quanto da questi si traduca in simbiosi visiva e letteraria con la sua poetica, rendendola densa di rimandi. Da Goethe a Mann, dalla scuola fiamminga con predilezione per Rembrandt, da cui assume il senso di ambiguità e mistero dell’immagine che rende leggibili le emozioni interne oltrepassando l’enigma del gesto esteriore, fino ai grandi precursori del suo cinema, Murnau e Tarkovskij, stendendo tappeti sonori che esplorano le scuole più importanti degli ultimi due secoli, dalla Russia alla Germania, passando per Vienna e l’ Italia, Sokurov crea una libera rielaborazione per immagini e suoni di una storia dell’uomo il cui ritmo persistente è quello dell’elegia, canto che dà voce alla perdita e alla sconfitta. Il suo non può essere un eroe tragico, è un perdente. Vedere Faust sottotitolato è esperienza impegnativa ma necessaria, “come pensare di leggere Dante in un’altra lingua? Faust deve vivere e parlare la sua lingua perché è stato concepito così.” ha detto il regista. “Verweile doch, du bist so schön!” non può dunque che suonare così, ma stavolta sulla bocca di Mefistofele: “Verweile doch, das ist nicht schön!”.