mercoledì, Dicembre 18, 2024

Festival dei Popoli 52 – Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog (Francia, 2010)

Che cos’è l’estasi. È un battitore d’asta americano che spara cifre a mitraglia mentre davanti a lui scorre un carosello bovino, è un pozzo petrolifero in fiamme, è la bocca di un vulcano, la pronuncia di Bruno S. È un grizzly udito e non visto, una distesa di granchi rossi, una farfalla che si posa sulla spalla di Kinski. È il cinema di Werner H. Stipetic, bavarese di Monaco, la personalità più sulfurea e sfuggente del cinema tedesco post-Oberhausen. E anche la meno tedesca, la più apolide, un paio d’occhi sfromboloni e curiosi montati su un paio di piedi che sul finire del 1973 camminarono fino a Parigi, senza barare, senza scorciatoie, per recarsi al capezzale di una Lotte Eisner morente. Lo sguardo di Herzog si lascia riassumere dal documentario The Wild Blue Yonder (2005): filmare la Terra come se fosse un altro pianeta o come se a scrutarlo, a rigirarlo come un balocco sconosciuto, fosse un alieno. O un Kaspar Hauser uscito allo scoperto dove aver passato vent’anni in una stanzetta ovale. Da questo punto di vista è ininfluente fare la classica distinzione tra l’Herzog narrativo e quello documentario. Anche i suoi film più deboli hanno spaccati umani e ambientali degni del miglior reportage, e ogni suo documentario (bello, bellissimo o sublime che sia) contiene una narrazione nella forma, molto spesso, del regista in carne e ossa intento a mostrarci il mondo, ad azzardare letture iperboliche, a intervistare i suoi bizzarri abitanti. Non fa eccezione Cave of Forgotten Dreams, primo documentario herzoghiano a sfoderare l’arma del 3D. Un’arma primordiale, necessaria, stupefacente nel senso pieno del termine.

All’inizio del 2010 Herzog ha ottenuto un permesso unico da parte delle autorità francesi. Il permesso di girare all’interno delle grotte di Chauvet, nel sud del Paese, protagoniste nel 1994 di una scoperta epocale. All’interno di un intricato labirinto di stalattiti e stalagmiti ampio quanto un campo da calcio, gli speleologi rinvennero i primi esempi di pittura della storia dell’umanità. Cavalli, leoni, rinoceronti e mammut ritratti da mani cavernicole alla luce di una torcia. Le stesse mani che, su un masso, lasciarono una trentina d’impronte intinte nel colore rosso, o che approfittarono di una roccia sporgente per tratteggiare un sesso femminile abusato da un bisonte. Il tutto è avvenuto circa 32.000 anni fa e ora la grotta è diventata un museo d’arte figurativa incrostato di cristalli e tempestato di teschi ursini. L’esperienza delle grotte di Lascaux, chiuse al pubblico per via dei danni provocati dall’irrompere dell’ambiente esterno, ha convinto gli archeologi a escludere ogni possibilità di rendere visitabile Chauvet, il cui contenuto è ancor più inestimabile. Un luogo off limits, riservato ai soli addetti ai lavori. Per Werner Herzog si è fatta un’eccezione, e ora, infilando gli occhialini fattapposta, possiamo scendere anche noi tra gli anfratti e vedere ogni cosa, ogni singola cosa, con i suoi occhi.

Realizzare un documentario del genere implica una sfida su più fronti. Il primo è rendere potabile un argomento archeologico ignoto ai più. Il secondo è rendere – nel senso di far risaltare – la visita alle grotte, con le infinite costrizioni dovute ai passaggi angusti, all’impossibilità di scegliere il punto di vista, alla luminosità limitata all’uso di una lampada quadrata grande come un iPad. Fare cinema imbragati da capo a piedi, elmetto in testa e con un sentierino coatto da seguire. Terzo, farlo in chiave sperimentale cavalcando la tecnologia 3D come un destriero imbizzarrito e arrivando al montaggio con una serie di immagini molto diverse per definizione e “professionalità”: sghembe e ribaltate, lisce e granulose, stabili e ballonzolanti, pittoriche e da cazzeggio. A volte, il 3D è pura profondità di campo. Altre volte è minaccia allo spettatore, incitazione al mal di capo, una forbice in testa come nel Delitto perfetto di Hitchcock. Cave of Forgotten Dreams è 3D a 360°, un’iniziazione tecnologica consumata nell’ambito di un progetto già molto delicato, unico, herzoghiano come può essere un azzardo che nessun uomo sano di mente prenderebbe in considerazione. Come fare Monaco-Parigi a piedi su sentieri ghiacciati. Come far scavalcare una collina amazzonica a un barcone.

Herzog non ha dubbi nell’inquadrare le pitture su roccia di Chauvet. Per lui sono sogni neandertaliani, immagini mentali perdute nell’abisso dei tempi. Come il rinoceronte a otto gambe che sembra uscito da un quadro di Boccioni, quelle immagini sono “protocinema” e rappresentano il primo tentativo giunto fino a noi di dare forma a un immaginario. I sogni perduti delle grotte di Chauvet sono cinema platonico, tracciato nel buio alla luce ballonzolante di una torcia – il proiettore. Un concetto che Herzog chiarisce inserendo nel montaggio una scena tratta da Swing Time (1936), con Fred Astaire che balla insieme alle proprie ombre.

I 90 minuti del documentario sono popolati, oltre che dalla fauna dell’era glaciale che fu, da una discreta fauna di scienziati scombiccherati: un giovane archeologo ex giocoliere, un ex profumiere con un gran fiuto per le cavità della terra e un tic al naso, uno archeologo vestito come un inuit che si mette a suonare un flauto preistorico e un altro archeologo che mima, senza grande successo, una tattica neandertaliana di caccia. Il tutto condito dalle domande fuori campo del regista e dal commento musicale di Ernst Reijseger, collaboratore di Herzog dal 2005 nonché memore delle sonorità arcaiche dei Popol Vuh.

Avvolgente e spigoloso, ipnotico e, perché no, istruttivo, Cave of Forgotten Dreams si sviluppa anche al di fuori della grotta, tra i filari nei pressi – scenario perfetto per una prima inquadratura che scaraventa lo spettatore in un mondo 3D sporco e approssimativo – e il fiume sovrastato da un arco di roccia, un’ambientazione favolistica che viene ripresa per via aerea… grazie a un elicotterino teleguidato, fino a spingersi in un museo del Baden-Würrtemberg colmo di statuine della fertilità. Eppure il finale non è, come ci si potrebbe attendere, un’ultima, solenne visita alle rocce dipinte. Herzog sceglie di girare un epilogo a 30 chilometri di distanza, in un ambiente tropicale ricostruito grazie al calore in eccesso prodotto da una centrale nucleare. Lì, quasi fossero fuggiti dalla New Orleans allucinata del Cattivo tenente (2009), troviamo rettili antidiluviani, in particolare due coccodrilli albini nati e mutati in cattività. Ed è proprio filmando da vicino quel loro candore gelido, quei loro occhi arancioni tagliati da una falce di luna, che ritorna. L’estasi dei grandi momenti captati da Herzog, come il salto senza fine dell’intagliatore Steiner.

“Il mio risveglio intellettuale e spirituale è stato in un certo senso collegato ai dipinti delle grotte del Paleolitico. All’età di dodici anni vidi un libro nella vetrina di una libreria con l’immagine di un cavallo di Lascaux in copertina, e mi prese un’eccitazione indescrivibile: volevo quel libro, dovevo averlo. Visto che la paghetta era solo di due marchi al mese, cominciai a lavorare come raccattapalle sui campi da tennis e presi in prestito dei soldi dai miei fratelli. Almeno una volta alla settimana controllavo, col cuore in gola, se quel libro era ancora lì. A quanto pare credevo che fosse l’unico esemplare al mondo. Mi ci vollero più di sei mesi prima di poter acquistare e aprire il libro, e quel brivido di meraviglia e soggezione non mi ha mai abbandonato”. WH

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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