Il secondo, pluripremiato, lungometraggio di Adrea Arnold è decisamente una delle rare perle che ogni anno ci vengono sbadatamente consegnate nella risacca della distribuzione estiva. Dopo l’esordio di Red Road, dramma di perversioni visive e morali ambientato nel degrado delle periferie londinesi, la regista inglese ribadisce il suo talento per il racconto sociale impudico, amaro e diretto, contraddistinto da una rabbia sincera per le sofferenze della condizione femminile e per le vite intrappolate dei personaggi raccontati.
Fish Tank ci immerge nell’orizzonte esistenziale di Mia, irruenta e intrattabile adolescente chav, peculiare variante britannica di quelli che nell’Italia gergale vengono definiti truzzi o coatti. Nel desolato borough londinese di Barking, tra campi nomadi e discariche, condomini fatiscenti e centri commerciali, Mia sopravvive a spintoni , aggrappandosi controvoglia alla passione (non esattamente baciata dal talento) per il ballo hip-hop e ad un rapporto morbosamente conflittuale con la madre degenere, la sorellina pestifera, l’affascinante fidanzato della madre e il mondo pressoché intero. La messa in scena ruvida e naturalistica della Arnold nasconde un fittissimo intarsio di simbolismi: catene da spezzare, pesci che boccheggiano, mitomani per strada che urlano i pensieri che sono anche di Mia, ammiccamenti che poterebbero risultare irritanti se lo sguardo empatico del film non sapesse farci respirarci la stessa aria viziata, la stessa claustrofobia dell’acquario di cemento in cui galleggia la protagonista.
Notevolissimo anche il lavoro sulla colonna sonora diegetica, che si propaga da stereo, autoradio e cuffiette per intrecciare il mosaico social-musicale della periferia inglese contemporanea: dalle nostalgie Soul, Reggae e Rocksteady degli adulti ex rudeboys fino alle aggressive contaminazioni hip-hop, dubstep e grime degli adolescenti, ogni canzone gronda di significati e osservazioni su chi la ascolta. Mia balla in faccia al mondo dalle vetrate della sua stanza , sulla voce di Bobby Womack nella sua versione di California Dreamin’, mentre il sole californiano filtra accattivante dagli acquari colorati delle televisioni, nei video di MTV e nei gossip di VH1, a riscaldare sogni di riscatto e celebrità che non potranno che rimanere dolorosamente tali. Meglio cercare l’America in Galles, non prima che le donne della disastrata famiglia solidarizzino su Nas che canta Life’s a Bitch, unico ritornello che le veda d’accordo.
Detto delle capacità registiche della Arnold e della profondità di scrittura nel film, non si può non menzionare la prova della diciottenne Katie Jarvis, lunatica, livida, goffa, intrattabile e per questo bella , coadiuvata dal mimetismo sorprendente di Michael Fassbender, diventato nel giro di un pugno di film l’indiscutibile attore cardine dell’attuale cinema indipendente inglese. Il doppiaggio, miracolosamente, non fa danni eccessivi e, Pixar a parte, stiamo probabilmente parlando della migliore uscita della stagione. Merita la vostra fiducia.