L’accesso allo spazio dell’inconscio assume la forma di un’ossessione nella Parigi fine ‘800; un continuo scambio di suggestioni tra ricerca scientifica e creatività, dove la scrittura (De Goncourt, Huysmans, Baudelaire, Daudet) in qualche modo cerca di trarre linfa dagli abissi della psiche, coltivandoli o provocandoli nella direzione di vibrazioni in grado di generare forme psicodinamiche del linguaggio, e la scienza esamina queste intuizioni, indagandone i processi nell’allestimento spettacolare di un vero e proprio teatro dimostrativo.
Basta pensare alla pratica dell’ipnosi legata agli studi di Hippolyte Bernheim e di Jean Martin Charcot. Tra i numerosi segni di questo scambio, la lettura accademica di Emile Gallè intitolata “Le dècor Symbolique“, pronunciata il 17 maggio del 1900 e scritta dal decoratore francese dietro incoraggiamento dello stesso Charcot, dove si afferma la superiorità della creazione artistica in una condizione alterata della psiche, rispetto all’utilizzo semplicemente tecnico di uno strumento di esecuzione. Dal 1862, Charcot, come responsabile della clinica per malattie mentali di Salpêtrière a Parigi, appronta una serie di strumenti per l’osservazione sperimentale dell’Isteria, cercando di individuare le fasi progressive del corpo “posseduto” con la produzione maniacale di documentazione visiva, non solo quindi modelli in cera e disegni dal vero ma una ricchissima produzione fotografica che andrà a costituire una sorta di atlante scientifico del disagio mentale, raccolto in una serie di volumi noti come “Iconographie photographique de la Salpetrie“. Charcot, grazie anche al matrimonio con una ricca vedova introdotta negli ambienti della Parigi intellettuale, apre le porte delle sue ricerche ad una vera e propria audience di artisti e letterati; ogni martedi questi possono assistere ad una serie di dimostrazioni dal vero della sintomatologia del “corpo isterico” come se si trattasse di un processo di indagine sui movimenti di un “corpo artistico” in un contesto del tutto teatrale, con i pazienti di Charcot, tutti di sesso femminile, al centro della scena.
È chiaro quanto le pazienti di Charcot partecipassero alla produzione di immagini con la trasformazione performativa del corpo isterico, per un apparato vojeuristico messo in piedi dalla scienza medicale, una forma di “scrittura” creativa i cui segni (violati oppure recintati, non importa) venivano decisi da uno sguardo esterno invece che da un flusso interiore.
Alice Winocour, con Augustine al suo debutto nel lungometraggio, si avvicina con una sorprendente conoscenza della materia alla relazione complessa tra Charcot e Augustine, una delle pazienti ricorrenti nell’icononografia della Salpêtrière, e lo fa rifuggendo completamente la solidità d’impianto legata alla ricostruzione storica; quello a cui la regista Francese sembra maggiormente interessata è l’allusione ad un sistema percettivo e teorico che mina alle basi le radici dello spettacolo occidentale come un sistema scopico genderizzato che sopprime la vitalità amorale del corpo con un occhio-camera che (lo) uccide.
Il primo attacco violento di Augustine, filmato dalla Winocour in un interno borghese mentre questa svolge le sue funzioni di cameriera nel terrore di non esserne all’altezza, ha come consequenza una sorta di “saldatura” della palpebra. Sembra quasi una riapproprazione di quell’ambivalenza surrealista che in una sequenza memorabile di Peeping Tom di Michael Powell, coglie in un solo volto la bellezza e l’orrore, la visione e l’accecamento, la rivolta del corpo con-tro le caratteristiche autoptiche dell’immagine.
Augustine, sin da questi folgoranti primi minuti, è un film che si muove tra oggetti e corpi avvicinandosi per certi versi a quell’esperienza della visione che la fenomenologa Vivian Sobchack descrive come attività esperienziale “incarnata” che non nasce solo intorno all’occhio.
L’iconografia della Salpetriere serve alla Winocour per sottrarre un corpo negato alla pratica dell’osservazione, per rilevare la forza erotica di Stéphanie Sokolinski (performer e songwriter nota come Soko) attraverso un’azione performativa che sia in grado di rovesciare a poco a poco lo sguardo inteso come origine primigenia dell’abuso; c’è una vicinanza interessante con il cinema performativo di Abdellatif Kechiche e con il suo sin troppo sottovalutato Venere Nera, ma in una direzione che non sceglie la scorciatoia seduttiva di quest’ultimo, nel creare un testo terribile, autoptico e pornografico come immagine tombale dell’antropologia moderna.
La Winocour ricerca quasi sempre l’immagine del transfert attraverso un detournament “tattile” di quello che Charcot stesso intendeva come trasferimento del corpo isterico nel “segno” creativo; a questo proposito c’è una sequenza straordinaria nel film della regista Francese, dove Soko e Vincent Lindon entrano in relazione attraverso il contatto fisico con una piccola scimmietta, un momento di cinema sensoriale che preme con forza per tutto il film attraverso il contatto del corpo con fasce, aghi, divaricatori e che in quel momento si libera dalla costrizione; ed è interessante, in questo continuo scambio tra organico e inorganico, come la Winocour tenga completamente fuori il dispositivo fotografico, le ottiche, gli scatti, le sessioni di ripresa fotografica applicate alla sintomatologia patologica, interessandosi maggiormente alle tracce, alle fotografie messe in serie negli album di Charcot, al corpo che esce dal quadro invece che ad un’immagine che avrebbe potuto essere facilmente intrappolata nell’arena metavisiva.
Non è un caso che tutte le sequenze di costrizione e immobilizzazione del corpo siano legate ad una persistenza del moncone, di un pezzo di corpo, di un dettaglio, con un’elusione dell’occhio in senso ellittico, che si avvicina alla durata solo attraverso una serie di immagini della costrizione dell’organico nell’inorganico; l’occhio fotografico è allora il nostro stesso occhio, l’unico che potrebbe assimilarsi alla posizione scopica dell’apparato medicale.
Per Charcot le pratiche di immobilizzazione, prodromi della tortura prestata in seguito all’elettroshock, avevano spesso una durata prolungata per ottenere una postura utile agli scatti, ovvero, per modellare il corpo sulla forma mentale dello sguardo. Alice Winocour, cineasta da seguire con attenzione dopo questo notevole esordio, supera l’apparato metavisivo e si avvicina alla possessione del corpo scardinandone lo sguardo esorcistico; in una sequenza di fuga dall’immagine che ne ricorda un’altra, bellissima, dall’occhio fotografico, l’Augustine/Soko viene verso di noi, quasi per toccarci.