Frankenweenie segna il temporaneo ritorno di Tim Burton alla casa madre Disney. Frutto di un accordo sancito nel lontano 2005, che prevedeva tra l’altro la realizzazione del precedente Alice in Wonderland (2010), il nuovo film di animazione del figliol prodigo Tim è un omaggio che l’autore ha deciso di fare a se stesso. Si tratta infatti di un adattamento in stop motion dell’omonimo mediometraggio datato 1984. Burton non si è limitato a transcodificare il vecchio script, che anzi è stato modificato quel tanto che occorreva per adattarne i tempi alla canonicità cinematografica e le atmosfere alle dinamiche della puppet animation. Si torna dunque al passo uno, la tecnica che ha reso celebre l’autore americano; l’avevamo lasciato nel 2005, ai tempi di Corpse Bride e non è cambiato molto, a dire il vero, al punto che risulterebbe sterile un’analisi di quest’ultimo film rispetto alla tradizione ‘di genere’: non c’è alcun tipo di ricerca formale, per cui meglio non scomodare inutili paragoni con Trnka, Starevich e gli altri maestri del passato. Lo stop motion ha raggiunto (fino a prova contraria) una comprensibile saturazione, cui Tim Burton ha certamente contribuito. Eppure un discorso su Frankenweenie può essere approntato, dal momento che offre notevoli spunti di riflessione specialmente nell’analisi di aspetti endogeni. Tim Burton si produce in una vera operazione di ‘autocitazionismo’, nella consapevolezza di aver creato nel tempo una poetica di riferimento. Prescindendo dalle invenzioni proprie dell’autore oppure desunte altrove, bisogna riconoscere come in questo film sia confluita gran parte della carriera del regista: il protagonista Victor sembra un perfetto incrocio tra il Vincent dei bei tempi e Victor Van Dort di Corpse Bride, la cittadina di New Holland unisce l’identità storica dei coloni olandesi di Sleepy Hollow (1999) e la planimetria del setting di Edward Scissorhands (1990), mentre il cagnolino Sparky è una sorta di Doppelgänger del fantasma Zero alla luce della serie animata Family Dog (prodotto da Burton e conosciuto in Italia come Qua la zampa, Doggie). Anche a livello strutturale è stato applicato uno studio pedissequo della riproducibilità: non solo si registra il prevedibile apporto di Danny Elfman alle musiche, ma anche la scelta stilistica del b/n non può che rimandare a Ed Wood (1994) e agli esperimenti degli anni 80. L’uso metodologico della propria opera che Burton perpetra indistintamente su classici e pellicole più recenti, permette di aggiornare il dibattito relativo alla filmografia del regista. Burton ha sempre portato avanti una rivisitazione del cinema all’interno delle forme del cinema, ossia si è appropriato con successo di una prassi filmica cercando di ometterne la tracciabilità; la stessa voracità con cui ha ridisegnato l’identità di certi miti cinematografici lo porta ora ad attingere alla propria produzione. Proprio per questo, dopo aver sperimentato sulle sceneggiature altrui in Charlie and The Chocolate Factory (2005), Sweeney Todd (2007) e Alice, eccolo intento a rinnovare se stesso con un atteggiamento che potrà apparire acritico, ma senza dubbio non pecca di prolificità.