lunedì, Dicembre 23, 2024

Gerhard Richter painting di Corinna Belz (Germania, 2011)

Dal dopoguerra ad oggi pochi autori sono paragonabili per influenza ed importanza a Gerhard Richter:  la continua ricerca di tecniche attraverso cui esprimersi, la novità del foto-painting , la capacità di rendere la naturalezza della vita nelle forme dell’astrattismo più puro, la sottesa provocazione politica che nei primi anni 60 rispondeva al nome di Realismo capitalista. Resta effettivamente difficile imbrigliare in poche parole il valore che la produzione di Gerhard Richter ricopre nell’arte contemporanea. Risulta forse più corretto misurare l’effetto della sua opera attraverso la quantità di allestimenti e retrospettive che gli sono state dedicate e che trovano ora giusto coronamento nella mostra “Gerhard Richter: Panorama” presso la Tate Modern di Londra. Al novero dei riconoscimenti che l’artista tedesco riceve vanno però anche aggiunte le celebrazioni che gli vengono tributate tra i non addetti ai lavori. Richter è infatti il simbolo del cambiamento, dell’ammodernamento di una nazione che negli anni 50 aveva deciso energicamente di voltare pagina. Per questo motivo si celebra Richter anche al di fuori dei circuiti tradizionali delle gallerie e dei musei. In questo contesto si inserisce il documentario in questione, proiettato in questi mesi nelle sale tedesche e presentato in anteprima il 24/11 a Firenze, in occasione del Festival “Lo schermo dell’arte”.
Gerhard Richter Painting è un documentario  realizzato dall’esordiente Corinna Belz. Il tema nello specifico è l’opera di Richter nel biennio 2008-2009. L’artista viene ripreso in diverse situazioni: nel suo atelier alle prese con le sue creazioni, nelle gallerie che presentano i suoi lavori, nelle conferenze stampa, nel tempo libero. Obiettivo non nascosto del documentario è la rappresentazione del modus operandi di Richter. Ogni particolare viene preso in esame (dalla miscela dei pigmenti per formare i colori, fino agli strumenti che Richter usa per distenderli sulla tela), mentre la regista intervista l’artista, la moglie, i suoi assistenti e diversi galleristi. Ciò che ne esce fuori è un ritratto fin troppo umano di Richter: vengono messe in risalto l’ironia, l’incertezza e la riservatezza di un uomo che ha preferito sempre celarsi dietro la propria arte. Si mostrano i momenti più delicati del processo creativo e spesso Richter si scusa, ammettendo che in quella determinata circostanza non sa come continuare a comporre. Oppure ancora si vede Richter mentre tenta di dire la sua sul valore dell’arte greca, di fronte alla quale non trova altra spiegazione che non sia “la bellezza del contrasto”. Viene dunque da chiedersi il perché di un tale documentario. Perché rendere necessariamente in termini comprensibili le dinamiche profonde e irrazionali che muovono la mano di Richter? Il rischio è infatti quello esecrabile di far passare l’artista in secondo piano a favore dell’uomo, dilapidando così la ricchezza della sua vastissima produzione. In realtà, in maniera forse involontaria, Richter evita al film una deriva verso il qualunquismo: ci riesce proprio con la sincerità e l’imbarazzo di un volto che smette di inquadrare e diventa obiettivo dalla macchina da presa. L’incomunicabilità di Richter è la riprova dell’inintelligibilità della sua arte. L’ispirazione lo attraversa  in maniera incontrollata ed instabile. Anche la sua maniera di lavorare il colore e concepire lo spazio e la struttura sono frutto della più disarmante spontaneità. Il documentario della Belz non fa che assecondare tutto questo con un’onesta regia. La concezione dell’atelier come set, la canonicità delle lunghe pose sulle pareti bianchissime e le opere ancora in lavorazione, i dettagli delle superfici: questi espedienti risaltano il divenire delle tele in un processo di metamorfosi che Richter persegue costantemente.
Gerhard Richter painting non sarà in definitiva un capolavoro di genere, ma ha il grande pregio di fornire immagini indelebili di un uomo che per tutta la vita ha continuato a definirsi attraverso la propria creatività, incurante eppure consapevole di cosa piacesse innanzitutto a lui stesso. Un artista che nel suo atelier, tra i cataloghi delle sue opere e i modellini delle gallerie più importanti al mondo, conserva centinaia di album fotografici. Li sfoglia cercando di cogliere ispirazione dalla vita in cui è immerso. Uno di questi album contiene foto di bambini e va recando il titolo di Vorbilder – esempi, modelli, ma anche ideali.

 

Davide Minotti
Davide Minotti
Davide Minotti nasce a Frosinone nel 1989. Dopo un'esperienza alla John Cabot University di Roma, si occupa ora di Germanistica e Scandinavistica tra l'Università degli Studi di Firenze e la Rheinische-Friedrich-Wilhelms-Universität di Bonn, dove vive. Appassionato di letteratura e cinema, spera che un giorno questi interessi possano diventare qualcosa di più concreto. Nel frattempo scrive e progetta cortometraggi nel perenne tentativo di realizzarli.

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