A questo proposito mi è capitato di sentire un dibattito alla radio, a proposito di ‘Draquila’ di Sabina Guzzanti, dove la frase più ripetuta era: « io non l’ho visto ma penso che…». Qualcosa di analogo è accaduto con film quali ‘Il grande sogno’ di Michele Placido o ‘La prima linea’ di Renato de Maria: ministri della repubblica sono intervenuti con una serie di rivendicazioni, vantandosi di non aver visto il film in questione. Si tratta di un fenomeno culturalmente inquietante, che vorrebbe prescindere dal fatto che è l’atto di visione che è generatore di senso. Mi preoccupa anche che un giornalista come Aldo Grasso, commentando il successo della serie televisiva ‘Romanzo criminale’, inizi il suo pezzo con parole come «Ancorché tratto dal sopravvalutato romanzo di Giancarlo De Cataldo…» . Non apprezzo lo snobismo e l’alterigia del critico che sale in cattedra ed emette giudizi inappellabili. I critici francesi, se avessero avuto a disposizione questi film, vi avrebbero costruito intorno un fenomeno sociale di attenzione che avrebbe potuto portare queste opere a vincere premi importanti e ad avere una più ampia diffusione. Quando esplose il fenomeno di Ciprì e Maresco, la nostra critica trovò importante sottolinearne il valore. Perché abbiamo smesso di promuovere ciò che di buono la nostra cultura produce? Al festival di Venezia si sono spesso verificati episodi di ostilità preconcetta da parte della critica italiana, mentre paradossalmente i nostri film ricevevano premi ed elogi a Cannes. Abbiamo assistito muti alla progressiva riduzione degli spazi concessi alla critica; mentre le vendite dei giornali vanno a picco, si reagisce aumentando il gossip, e a nessuno sembra venire in mente che forse la ricetta di Fazio e di Saviano possa essere quella giusta. Vogliamo iniziare a fare qualche piccola battaglia? Ritengo che il cinema italiano sia interessante perché sotto attacco: assiste ad un collasso catastrofico del sociale, su cui gli uomini di cinema riescono a costruire cose interessanti. A questo proposito mi viene in mente battuta di Orson Welles ne ‘Il terzo uomo’ (« Sai che diceva quel tale? In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto assassini, guerre, terrore e massacri e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e di democrazia e cosa hanno prodotto? Gli orologi a cucù. »). In questa Italia che mi ricorda quella dei Borgia c’è forse l’urgenza di fare i conti con questa realtà e in futuro sono sicuro che chi vorrà capire i meccanismi più profondi della nostra società guarderà al cinema, al documentario, alla narrativa.
Negli ultimi anni si ha l’impressione che i film, come la memoria, abbiano vita sempre più breve. Quali sono a parer suo i cineasti italiani che hanno raccontato meglio il nostro tempo e quali dei film di questo primo decennio del secolo in qualche modo rimarranno e continueranno a suscitare interesse e discussione?
Non ho inserito nell’elenco film che amo molto, come ‘L’odore del sangue’, di Mario Martone, che personalmente metterei tra i primi venti, perché purtroppo piace solo a me e a pochi altri, mentre ho scelto altri film che a me personalmente piacciono poco. Se si prova semplicemente a scorrere l’elenco ci si rende conto che il nostro non è un cinema di cui vergognarsi. Troviamo film di assoluta importanza, collocati nel valore simbolico di un ordine arbitrario. Mi fa piacere che a chiudere sia ‘Vincere’ di Marco Bellocchio: questo film in particolare è una delle opere più coraggiose, innovative e penetranti sull’eterno fascismo italiano, analizzato attraverso un lavoro di grande complessità sul ruolo delle immagini e dei corpi. Se devo proprio scegliere, Olmi, Bellocchio, Sorrentino sono forse i registi che hanno meglio sintetizzato il nostro tempo e sono anche fra i pochi presenti nell’elenco con tutti i film da loro realizzati durante il decennio.