Questo articolo fa parte di un approfondimento dedicato ad Habemus Papam di Nanni Moretti e che include anche Separato dalla materia sensibile
L’ultimo film di Nanni Moretti Sembra quasi un libero rovesciamento di quel viaggio Kafkiano intorno ai palazzi Vaticani scritto da Ferreri / Azcona nel 1971, tra l’altro, già condotto al contrario rispetto all’escatologia negativa dell’autore Praghese, come ebbe a scrivere Carlos Aguilar in un’illuminante nota a margine di un catalogo festivaliero.
Ne L’udienza il movimento di Amedeo/Jannacci è generato da un’indicibile urgenza spirituale capace di esercitare una pressione invisibile, un fuori campo quasi Bunueliano destinato a schiantarsi con un set impenetrabile dall’esterno in un’immagine non riconciliata tra una realtà opaca e uno sguardo irriducibile. In Habemus Papam è l’interno di quel set osservato dal recinto di una ricostruzione impossibile e meticolosa che viene sgretolato in uno spazio non visto, un’immagine dell’assenza che non può essere descritta se non con quel dolore fisico che Simone Weill situava nel “punto di congiunzione dell’anima e del corpo”, raccontando con parole di grave levità quanto la sua stessa anima diventasse sempre di più inabitabile da parte del pensiero, costretto quindi a trasferirsi altrove.
Con ritrovata fiducia in quelle dis-articolazioni dolenti della commedia che ne rivelano, oltre allo spazio mobile e combinatorio, anche certe forme del vuoto, Moretti getta uno sguardo fuori dal mondo e ci invita ad un viaggio in grado di scavalcare anche gli argini del suo stesso cinema, negli anni sempre più chiuso nel recinto di un immaginario autosufficiente e con un senso dell’inquadratura al sicuro da qualsiasi forma di assedio.
Michel Piccolì regala a Papa Melville un volto di intensa fragilità, un’anima in-visibile posseduta da un principio di incertezza che lo avvicina al Gilbert Valance di De Oliveira in quel desiderio di conoscere la libertà della morte e la perdita del controllo con l’abbandono improvviso del set, il venir meno della memoria, la possibilità di rigenerare lo sguardo uscendo dal quadro. Moretti sembra davvero alla ricerca di un’immagine che sfiori il baratro con una messa in abisso tra quella densità della messa in scena che organizza l’orchestrazione del gioco e la possibilità che questa stessa forza ludica punti verso il vuoto.
Habemus Papam è ricco di false apparenze, ellissi, miraggi, anche nei momenti in cui si crede di assistere ad un meccanismo residuale del genere, come quello che gli sguardi ansiosi di un conclave di Vescovi-Bambini rivolgono più volte ad una finestra che restituisce solo l’ombra del sacro. L’immagine è in qualche modo sempre altrove, irriducibile com’è non si ipostatizza nel ruolo, nè attraverso il sogno interpretato, tanto che lo stesso Moretti-psicanalista condivide con il conclave il medesimo stato di sospensione allucinatoria.
Melville, al contrario, lascia che il suo corpo segua il peregrinare dello sguardo, cerca il racconto invece di farsi stanare dallo stesso, incrocia (Rivettianamente) la follia della performance teatrale invece di morire nell’inerzia del testo, si ritira nel nero di un’immagine che Moretti ripete all’infinito in Habemus Papam, sin dal primo annuncio mancato dal balcone di Piazza San Pietro.
Sapendosi fallibile, Papa Melville dubita delle verità evidenti e certe uscendo da un cinema inteso come “scena” ed entrando nel “mondo”.