Testimone dell’orrore. La volontà di Rob Zombie di non farci uscir vivi dagli anni ’80 ci viene mostrata nel suo cinema come una testimonianza pulsante che proviene dritta dal cuore nero di quegli anni. Aderenza ai colori più marci e alla luce più livida, nessuna esitazione sulla via da percorrere, l’escatologia del male purificata da qualsiasi espressione dell’ambiguità, perchè del sequel, a Zombie, interessa mettere in scena un’immagine desertificata e scavata nell’ereditarietà genetica e ossessiva della serie. Myers allora può anche togliersi la maschera, il Dr. Loomis rinnegare il suo passato in una tiepida pantomima di se stesso, rivelandosi come il peggiore tra i ciarlatani contemporanei; entrambi saranno irrimediabilmente risucchiati in un buco nero, una riappropriazione di se stessi e della propria mitologia nella coazione a ripetere del male più estremo e brutale. In questa piattezza granitica, nell’apparente assenza di guizzi della scrittura c’è la traiettoria chiara e radicale di una visione ideologica, l’amore per il male del cinema più che quello per un cinema manieristicamente malato, una vicinanza attuale all’immagine più stolida dell’orrore, quella di un quarantenne che rifiuta la distanza di sicurezza necessaria a qualsiasi operazione in odor di nostalgia. Il cuore e le mani di Rob Zombie sono sporchi di sangue, un’idea di cinema che solo in questo modo può manifestarsi in modo schiettamente disturbante, seguendo la mutazione dei suoi abitanti come in un lungo rito di passaggio che mette al centro una sola maschera cerimoniale. Lo spazio nel cinema di Zombie subisce quasi sempre una concentrazione rituale, un movimento che si rivela lineare quanto apparente e transitorio; in Halloween II la tripla deriva di Michael, della sorella Laurie e del Dr. Loomis trova una congiunzione puramente visionaria; sdoppiamento apparente, il sogno del male stesso capace di generare un palindromo mostruoso che somiglia solo a se stesso. E’ un’immagine dell’amore allo specchio in fondo, la stessa che nel “signore del male” di Carpenter fa piangere in un ghigno grottesco gli occupanti di uno spazio desacralizzato mentre dialogano con il riflesso irriconoscibile del tempo. Quando il tema scritto da Carpenter e Alan Howarth invece di sigillare il male, lo mantiene in vita anche dopo i primi titoli di coda, emerge la voce di Nan Vernon, un’interprete non molto conosciuta, abituata a trasformare motivi della classicità in simulacri terribili; come per la Moon River manciniana, Love Hurts dei Nazareth ha la qualità corpuscolare di un vecchio 78 giri; nessun trucchetto vintage, solo un brano del tardoromanticismo Metal che si trasforma in un tributo di sangue: Love Hurts, love scars, love wounds and marks.
Halloween II – di Rob Zombie (Usa 2009)
La volontà di Rob Zombie di non farci uscir vivi dagli anni '80 ci viene mostrata nel suo cinema come una testimonianza pulsante che proviene dritta dal cuore nero di quegli anni. Aderenza ai colori più marci e alla luce più livida, nessuna esitazione sulla via da percorrere, l'escatologia del male purificata da qualsiasi espressione dell'ambiguità, perchè del sequel, a Zombie, interessa mettere in scena un'immagine desertificata e scavata nell'ereditarietà genetica e ossessiva della serie...