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Halt auf freier Strecke di Andreas Dresen: alcune considerazioni su un nuovo cinema tedesco

Halt auf freier Strecke, presentato nella sezione Un Certain Regard alla 64^ edizione del festival di Cannes, è l’ultima opera del regista tedesco Andreas Dresen. Dresen non è di certo nuovo del parterre francese, sebbene in Italia sia invece pressoché sconosciuto: risale infatti al 2008 Settimo Cielo (Wolke 9) ovvero l’ultimo film del regista tedesco distribuito nel nostro paese, insignito col premio Coup de Cœur du Jury.
Halt auf freier Strecke narra la storia di un malato terminale. Venendo a conoscenza del male che lo affligge, un tumore maligno al cervello, l’uomo tenta di prepararsi alla morte nell’arco del tempo che gli rimane da vivere. Accanto a lui patiscono la moglie e i due figli, i quali assistono al deperimento fisico e cerebrale del protagonista, fino all’inevitabile conclusione. Questa la trama di un film che, malgrado la gravità del tema trattato, non può fare a meno di sollevare dubbi sulla banalità, almeno tematica, della pellicola. Risalgono infatti ai primi anni 90 i film che meglio hanno parlato al grande pubblico dell’incurabilità del male: My Life (Bruce Joel Robin – 1993) e Philadelphia (Jonathan Demme – sempre 1993) sono solo alcuni dei titoli cui Dresen rende tacitamento omaggio. Del primo, oltre che la struttura narrativa, il film tedesco prende in prestito anche l’espediente del montaggio a tecnica mista, mediante il quale il protagonista del film, interpretato da un attore capace, Milan Peschel, parla di e con sé dalla fotocamera di un I-phone; un atto dovuto ai figli/posteri cui Michael Keaton adempiva in My Life con l’ormai obsoleta telecamera domestica. Come in Philadelphia, per continuare a definire la trama di rimandi che Dresen tesse, l’attenzione è tutta sull’analisi dell’irreversibilità del dolore, un deterioramento che in entrambi i film viene accompagnato dalla raffinatezza della regia: nel caso di Philadelphia la vicenda assume i tratti del lirismo più sfrenato; Dresen approccia invece la drammaticità con benevola delicatezza, in una sapiente commistione di realismo (a momenti addirittura dogmatico) e manierismo. Pur risparmiando al pubblico le scene visivamente più strazianti, Dresen ritrae la storia silenziosamente, con una scelta minimale delle musiche di sottofondo e, soprattutto, un montaggio secco e repentino. Unica divagazione sul tema è la rappresentazione corporea del tumore, una componente grottesca dal forte significato allegorico: il protagonista, sopraffatto dal dolore, inizia infatti a vedere la personificazione del proprio male in televisione, ospite dei talk-show, oppure ancora se lo ritrova a letto, accovacciato sulla sua spalla; inizia letteralmente a convivere con il cancro. Halt auf freier Strecke, come altri film di simile fatta, resta semplicemente un buon film che trae la sua forza dalla catarsi cui gli spettatori sono destinati a sottoporsi e da una sorta di vaga e compiacente curiosità che si prova alle volte al cospetto della tanto romanzata “morte annunciata”.
Nonostante quanto sopra, il film di Dresen è un esempio sintomatico delle tendenze dei film tedeschi dell’ultimo decennio. Volendo infatti estremizzare i concetti, non è difficile riscontrare matrici comuni nella nuovissima cinematografia tedesca. La Germania costituisce una sorta d’anomalia filmica, perché non c’è una tradizione propriamente detta. Ad eccezione degli sporadici esperimenti espressionisti di Wenders, la filmografia dell’ex BRD e odierna Repubblica Tedesca è un processo in divenire che riflette i cambiamenti che il paese ha iniziato solo ora a metabolizzare. In questo contesto si può spiegare, ad esempio, la dirompente esplosione del cinema turco-tedesco portato al successo da Fatih Akin oppure l’ormai decennale esperienza della Berliner Schule, movimento noto per il forte realismo – tant’è che nel settore si cominciò a parlare di Nouvelle Vague Allemande. Le caratteristiche che accomunano de facto questa grande ed eterogenea cultura cinematografica, superano le definizioni di genere (si riscontrano perciò nelle commedie come nei drammi) e sono esemplificabili in: un gusto marcato per l’Inszenierung del quotidiano (sarebbe a dire la rappresentazione tout court della vita del paese, priva di inibizioni e moralismi – probabilmente l’unico lascito di Fassbinder, Reitz e gli altri esponenti del Neuer Deutsche Film), la ricerca del kitsch come provocazione visiva (il nume tutelare in questo caso resta Haneke), una forte tematizzazione del contesto sociale tedesco (che però non evita facili cliché, come nel caso di Almanya, qui recensito da Claudia Fratarcangeli) e poi il concetto di Vergangenheitsbewältigung (confronto e superamento del passato, una costante invisibile dell’identità tedesca). In definitiva si può assumere che gli autori tedeschi non godano solo di maggiore libertà espressiva, ma anche e soprattutto  di maggiore ispirazione. Film come Gegen die Wand (2004), Vier Minuten (2006), Emmas Glück (2006), Das Leben der Anderen (2006) e Soul Kitchen (2009) sono esempi diversi tra loro di come, nonostante i botteghini siano colmi di tanti discutibili titoli importati o originali, il cinema tedesco abbia  in questa fase un respiro più ampio e innovativo: i temi trattati sono sempre delicati, come l’immigrazione, la libertà di parola e l’eutanasia (in Emmas Glück la protagonista uccide il marito, malato di cancro, tagliandogli la gola nell’ultimissima scena, sebbene il film sia a tutti gli effetti una commedia); lo stile è molto asciutto, il taglio dei copioni ironico, eppure ognuna di queste storie nasconde una stortura, una nota caricaturale che nel film assume piena espressività.
Halt auf freier Strecke, tornando al motivo principale di questo scritto, può essere preso a modello di quanto detto finora. Dresen presenta i fatti in maniera schietta, sintetica e poetica al tempo stesso. I fatti vengono narrati in medias res e in questo senso è emblematico l’inizio del film, con il protagonista in primissimo piano che ascolta le parole del medico che gli diagnostica la morte (il contenuto del film risponde quindi alle necessità dell’Inszenierung). La crudezza del film è poi arricchita da una regia che accenna, senza indugiarvi troppo, al collasso fisico dell’uomo (in questo si ritrova la componente kitsch). Le note di colore del film sono fornite dalla metafora stravagante della personificazione del tumore, un elemento a tratti di disturbo, eppure estremamente funzionale allo sviluppo della figura del protagonista. In tutto questo il senso generale della storia è proprio la gettatezza della vita, che sovrasta l’intero film e si esprime nel bisogno di continuare a vivere (nell’ultima scena la figlia del protagonista, rotta dai pianti per la morte del padre, chiede di essere accompagnata in palestra per gli allenamenti). In questo modo Halt auf freier Strecke risponde ad un’esigenza di praticità e concretezza cui la cultura tedesca è naturalmente portata. Il film dimostra quanto Dresen, rappresentando la singolarità di un dramma familiare, sia attento all’analisi della società tedesca di oggi.

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