Joe Wright, abituato a cimentarsi con materia letteraria di un certo peso (Orgoglio e pregiudizio, Espiazione e il prossimo Anna Karenina) ha sviluppato un’attitudine interpretativa “fredda” nei confronti del testo, per una certa formazione di tipo televisivo (la chiave se si vuole, è nella produzione della miniserie per la BBC dedicata a Carlo II d’Inghilterra) ma anche per un imbarazzo tutto inglese nei confronti dei grandi formati, quasi che all’impiego di mezzi produttivi di alto livello corrispondesse una spinta autocensoria, messa in funzione per restituire all’inquadratura un’educazione formale di soffocante quadratura; tendenza che a nostro avviso poco ha a che fare con l’intelligenza dello sguardo. Per la realizzazione di Hanna, Wright si è affidato alla scrittura dei quasi esordienti David Farr e Seth Lochhead, spostando tutta la patina letteraria in un ambito prevalentemente citazionistico così da mettere in equilibrio il film su una struttura che ammicca alle suggestioni della fiaba classica.
E’ una collisione tra due mondi per niente sottile, e facilmente decriptabile sin da subito, dove in un contesto che potrebbe essere quello di un classico da “cortina di spie”, irrompono elementi simbolici che forzatamente obbligano l’occhio all’interpretazione allegorica, più che alla scoperta del visibile. Hanna, ragazzina dalla memoria e dalle caratteristiche fisiche prodigiose, viene addestrata dal padre in un luogo “fuori dal mondo” per difendersi dai suoi creatori: un pezzo dell’alto comando del governo degli Stati Uniti deciso a sopprimere tutti coloro che conoscono le sue origini, legate a sperimentazioni illegali sul codice genetico.
Tra violenza e stupore, Wright gioca pesante cercando di suggerirci qualcosa che eccede i confini del film, come l’educazione infantile in un teatro di guerra, la perdita dell’innocenza, il romanzo di formazione tra bene e male. E’ su queste premesse che si sviluppa un pasticcio incerto, tra spy thriller con pochissimo nerbo, sequenze action di maniera coadiuvate dalla colonna sonora composta per l’occasione dai Chemical Brothers, forse la cosa più “retrò” e modaliola scritta negli ultimi anni da Tom Rowlands e Ed Simons, e l’iperrealismo della fiaba che emerge in un contesto urbano desolato.
Durante la fuga a Berlino di Saoirse Ronan, nelle uniche sequenze di una certa flagranza, dove l’attrice irlandese percorre la suburbia Berlinese in cerca della casa dei fratelli Grimm, viene in mente il modo in cui Philip Ridley, su una materia apocalittica molto simile e con la stessa propensione al passaggio da realtà a sur-realtà, ha indagato la mutazione di un cuore nel suo imperfetto e bellissimo Heartless; e ancora, non si può non pensare a cosa sarebbe stato Hanna, nelle mani di un cineasta come Neil Jordan, che al contrario di Wright, ha saputo anche perdersi nell’eccesso della visione, tra realtà della fiaba e illusione di realtà.