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Harry Brown – Di Daniel Barber: la recensione

I primi venti minuti di Harry Brown si reggono su di un rigore gelido e apocalittico; una visione in soggettiva della crudeltà  sufficiente a spazzar via la matematica per le masse di Michael Haneke; Daniel Barber si appropria dell’occhio di un mobile phone e lo sbatte in mezzo ad un’azione di violenza inaudita utilizzandone la percezione audiovisiva in tutta la sua forza iperreale; suoni saturi, una visione incerta, la velocità dell’orrore che precede un’immagine confusa e molto simile a quelle disponibili nei network di condivisione; la morte è più veloce di un occhio disincarnato.

Il primo lungometraggio di Barber presentato e visto in questi giorni al Courmayeur noir in festival si apre come strano omaggio al Free Cinema,  immerso in un landscape suburbano illumina con luce livida una tensione minacciosa, quasi Ballardiana, dove i corpi degli occupanti sono carcasse segnate dalla vita, morti in una città morta. Michael Caine è un ex marine in pensione, assediato da ricordi che non possiamo penetrare, abita un appartamento grigio, cinereo, dove pareti, fotografie, mobili hanno tutti la stessa consistenza.

L’occhio può solo scrutare da una tenda scostata e guardare la violenza che esplode in un quartiere dimenticato. Stato d’assedio continuo, minaccia marchiata sui volti di tutte le anime che attraversano il film, figure orribili, marcescenti, carne che sembra deformata dall’occhio tragico Baconiano. La penetrazione di Harry Brown in quest’inferno ricorda la superficie di Death Wish, ma è come se quel cinema monolitico, fatto di violenza estrema e tipizzazioni scolpite con l’accetta fosse tradotto nella sua essenza più astratta; una metafisica della violenza che non presenta vie d’uscita, con il volto di Caine o quello di Emily Mortimer a mostrarci i segni di una malattia invisibile, un percorso verso il disfacimento che porta con se le stesse tracce che minano le fondamenta della città, arena di un conflitto senza origine.

Michael Caine è assolutamente straordinario nel mettere in scena una determinata ferocia resa instabile dall’inadeguatezza del suo vecchio corpo, incertezza costante che comunica un dolore senza fine, la forma più estrema di resistenza alla morte. Harry Brown è uno scandaglio spietato di certo immaginario cinematografico; un arco teso, funzionale, dal meccanismo squadrato che mostra ferite profondissime nei corpi dei clienti di un pub, nel volto di un pusher scavato dalla morte, nell’incedere disperato di Michael Caine contro un inferno globale.

 

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
harry-brown-di-daniel-barber-uk-2009Visto al Courmayeur Noir in Festival, Harry Brown si apre come strano omaggio al Free Cinema, immerso in un minaccioso landscape suburbano illumina con luce livida una tensione minacciosa, quasi Ballardiana, dove Michael Caine è assolutamente straordinario nel mettere in scena una determinata ferocia resa instabile dall'inadeguatezza del suo vecchio corpo...
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