domenica, Dicembre 22, 2024

Hereafter di Clint Eastwood: la recensione

George (Matt Damon) torna spesso ai suoi ascolti notturni, i soli che riescano a condurlo in una dimensione pacificata; è la ricerca di un contatto vivo con le parole e lo spirito di Charles Dickens, reso possibile dalla voce di Derek Jacobi, medium che colloca l’esperienza del sensitivo tra i vivi e i morti nello spazio liminale della ricerca, quella che scaturisce dal suono e dal racconto, forma della fede che si affida al potere rivelatore della scrittura cercando di superarla, la stessa sospensione in un dolce domani che in alcuni romanzi di Russel Banks connette l’invisibile attraverso la Storia e la Letteratura e trasforma la parola in visione.

E’ un dissidio tutto Eastwoodiano quello di Hereafter, un dibattersi incessante di corpi e segni tra la vita e la morte del racconto tanto che tutto il suo ultimo cinema potrebbe essere riletto a partire dai piccoli, impercettibili corto-circuiti che insieme ad altri depistaggi, crettano quella supposta solidità classica elevata a paradigma da un certo tipo di critica.

Basta osservare i ministri della chiesa che transitano (letteralmente) nel cinema di Eastwood a partire da Mystic River fino a Gran Torino, messaggeri di morte, volti già decomposti, zombie disumanizzati che si rifugiano in una delimitazione dello spazio sacro, incapaci come sono di perdersi nella complessità del reale, quel reale che ovviamente abbraccia anche l’invisibile e di cui Frankie Dunn chiede conto senza requie; catturati da Clint Eastwood come presenze laterali, inquietanti, cancro di un ingranaggio narrativo che ha sempre permesso al regista Americano splendide derive, salti nel vuoto, digressioni sul dispositivo cinema che senza essere palesemente metafilmiche, lo sono intimamente nella capacità di creare un movimento emozionale di vicinanza e distanza con il mondo,  quella discontinuità del reale di cui scrivevo dopo la visione del sottovalutato Invictus, film dove la concentrazione di questi elementi diventava vertiginosa.

In questa ricerca continua sul significato della morte, Hereafter non solo è “fedele” al cinema di Eastwood, ma è vicino allo spirito Dickensiano a metà tra infelicità e propulsione a superarla, quel sentimento che pervade tutta la vita di David Copperfield, audiolibro tra i preferiti di George, tanto che in Hereafter sono chiaramente presenti molti passaggi dalla visione soggettivo interiore di Dickens, incluso quello che descrive l’antico sentimento della sua infelicità, quel senso di indefinitezza che si manifesta nel suono di una musica malinconica, avvertita nella notte da un luogo distante, impalpabile; un’indicazione molto precisa che ci racconta il mondo invisibile di George, figura asolutamente Eastwoodiana, molto più dei contatti con una realtà metafisica nella quale non cerca risposte.

Quello di Eastwood sembra a tratti lo sguardo di Dickens osservato attraverso i film di Frank Capra o di Henry Koster nella spinta a mantenere un contatto con essi delineando il deambulare disperato dei corpi tra due mondi, quello di Marie, vera e propria non-morta, lentamente scollata dalla sua immagine, inclusa la sostituzione pubblicitaria del Blackberry in uno dei tanti motti di spirito visionari a cui Eastwood ci ha abituato; e soprattutto l’incredibile passaggio tra la vita e la morte del doppio Marcus / Jason, gemelli nella scrittura di Peter Morgan, ma vera e propria immagine palindroma per il grande regista Americano, al punto da spingerlo a invertire i ruoli di Frankie e George Mclaren, entrambi Marcus e Jason, in un avvitamento impossibile della visione che riesce a connettere morte e vita in un’immagine apparentemente semplice e innocua, ma al contrario, ricca di stratificazioni.

Marcus / Jason sembrano, ancora una volta e su un piano diverso da George, un’estrema elaborazione di alcune figure Dickensiane cosi da rendere riconoscibile l’impronta solamente in alcuni passaggi, come per esempio la splendida sequenza del ragazzo in attesa, al freddo, sotto la camera d’albergo di George. Ma è il racconto segreto di George, che ancora una volta, prende una piega inattesa e non rivelata; come David Copperfield dopo aver visto Agnes Wickfield girarsi verso di lui, in una strana commistione tra una visione sacra e uno specchio che riflette colori e immagini nella forma del vetro di una chiesa, George incontra Marie con il desiderio di chi è finalmente capace di riassorbire la persistenza minacciosa delle immagini sostituendola con la fede (quale, non è assolutamente importante). L’immagine si spegne, ultimo simulacro che smette di mimare un altro mondo (o un vecchio cinema di ricordi) come nello slancio di Walt Kowalski verso la morte.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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