«Bruegel nasconde i suoi eroi – Cristo condotto al Calvario – dietro la gente comune. Il centro nevralgico del dipinto, la croce, si mostra e si cela alla vista. E quel che più è in evidenza scompare nel groviglio dei corpi che popolano l’allegoria fiamminga della vita e della morte». Così il videoartista Lech Majewski presenta “I Colori della Passione” (il titolo italiano non rende giustizia all’originale, “The Mill and The Cross”), un viaggio sospeso fra cinema e pittura che si avvale delle potenzialità del digitale (sovrapponendo tre tipologie di ripresa: su blue screen; dal vero in Polonia, Repubblica Ceca, Austria e Nuova Zelanda; su fondale in 2D dipinto su una grande tela) per restituire la pregnanza visiva e il fascino della celebre opera di Pieter Bruegel, “La Salita al Calvario” (1564). Nelle Fiandre del XVI secolo, la dominazione spagnola si abbatte anche sul villaggio del pittore, portando con sé una scia di violenze e soprusi. Cristo muore di nuovo – nell’attimo congelato per sempre sulla tela – condotto al martirio dai mercenari in pettorina rossa, al soldo del re di Spagna. Con lui, nella medesima dimensione spaziale e nella congestione temporale del dipinto, muore un eretico, issato su un palo (l’albero della morte) è offerto in pasto ai corvi. Intorno a loro musici e danzatori, contadine e animali. Su uno sperone roccioso, isolato a una vertiginosa altezza, il mulino e il mugnaio, il Dio che osserva dall’altro – imperturbabile – quel che accade sulla terra. Solo l’artista, al tempo stesso osservatore e osservato, è in comunicazione con il divino e, come lui, ha il potere di fermare il tempo per cogliere la potenza dell’attimo rivelatore. Majewski, a metà strada fra Greenaway e il Sokurov de “L’Arca Russa”, cerca di penetrare l’essenza del capolavoro di Bruegel, immergendosi nei colori e nelle atmosfere del dipinto, che si anima e prende vita, in un continuo scarto fra movimento e quiete, riproduzione fedele e interpretazione metaforica. L’immersione nell’estetica del pittore è la fonte per accedere alla dimensione narrativa del dipinto, che racconta una storia di violenza che dal particolare (la morte di Cristo, la sofferenza dell’eretico) ascende al generale (la storia delle Fiandre) e, quindi, all’universale (la condizione umana, sospesa fra l’albero della vita e l’albero della morte, il girotondo dei vivi e la processione dei morti). «Ho scoperto il dipinto durante un viaggio a Venezia, fermandomi di passaggio a Vienna. Avrei potuto trascorrere ore a contemplarlo. Osservare un’opera di Bruegel è un’esperienza simile a quella che si prova di fronte a un film di Fellini: i personaggi traboccano di sfumature, non si mettono in posa, sono di spalle. La varietà dei tipi si moltiplica a ogni angolo. È vita in movimento. Si può vedere bene un quadro di Lichtenstein a cinquanta metri di distanza, ma per conoscere Bruegel bisogna avvicinarsi enormemente, osservare ogni figura. Il dipinto ci attrae automaticamente all’interno della propria orbita», osserva Majewski, che non risparmia un affondo al mondo dell’arte contemporanea: «lo scenario attuale, pieno di millantatori e di cialtroni, soprattutto nella grandi gallerie statunitensi, mi ha stancato. Ma non odio i musei e le esposizioni d’arte. Nel mio film rendo omaggio alla sala viennese che ospita Bruegel. La stanza compare alla fine: è il mio omaggio alla “casa” del dipinto». Davanti ai nostri occhi e a quelli dello stesso Bruegel (Rutger Hauer), gli elementi de “La salita al Calvario” diventano personaggi in cerca d’autore, figure mobili che celano – dietro una rigidità in progressiva dissolvenza – un’esistenza e una vitalità proprie, secondo la tecnica del tableau vivant, già adottata da Pasolini e da Godard. Sceneggiatore di “Basquiat” e regista del visionario “Il Giardino delle Delizie” (da un dipinto di Bosch), poeta visuale, regista teatrale e romanziere, Majewski – esordio cinematografico con “Angelus” (vicenda epica ambientata fra le miniere della Slesia) – unisce la propria sensibilità pittorica alle intuizioni dello scrittore e critico d’arte Michael Gibson, autore di una complessa analisi (“The Mill and The Cross”) del dipinto di Bruegel. Il risultato è un’opera stratificata non soltanto nella tecnica compositiva, ma nella stessa resa filmica, che sembra risolversi nell’esperienza del puro godimento visivo – il “piacere degli occhi” – e si trasforma in un inno alla libertà e alla tolleranza. Il dipinto diventa cinema attraverso il movimento, instillato dalla mano del pittore che, nella resa perfetta dei corpi, infonde loro una dimensione ignota. Tramite dell’esperienza artistica e spirituale, osservatori increduli e sofferenti sono la Vergine Maria (Charlotte Rampling) e il committente Nicholas Jonghelinck (Michael York), cui sono concessi due lunghi monologhi di fronte alle sofferenze inflitte, rispettivamente, a Cristo e alle Fiandre. Il pittore, come un ragno, costruisce la propria tela, imbrigliando la creatività nella logica di una ferrea struttura compositiva, che imprigiona il tempo che trascolora. «Questo è anche il mestiere del regista», suggerisce Majewski: «a Bruegel è a tutto ciò che nei suoi quadri emerge, ma spesso non si vede, devo gran parte di quello che so».