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I Guardiani del destino di George Nolfi: la recensione

Con I guardiani del destino, lo sceneggiatore George Nolfi, una carriera in bilico tra l’action (The bourne ultimatum, Ocean’s Twelve) e la fantascienza (Timeline), sceglie niente meno che Philip K. Dick per il suo debutto alla regia, ibridando i temi più cari allo scrittore di Chicago, con i toni del melodramma sentimentale e della riflessione sociologica su politica e mass media. Il risultato è una strana mistura in equilibrio sempre precario, che tende pericolosamente a far prevalere  il romanticismo più smielato, fino ad una conclusione appagante quanto un’uscita di sicurezza sul retro, con un pigro happy end e qualche perla di saggezza evergreen. Nel racconto breve di Dick (The Adjustment Bureau, 1954), la parabola del candidato David Norris, astro nascente della scena politica statunitense, offre lo spunto per articolare il rapporto fra destino e libero arbitrio nei termini di un determinismo di stampo pseudo-teologico, in cui una serie di compassati individui in completo scuro (forse angeli caduti sulla terra) interviene di tanto in tanto per effettuare aggiustamenti e ritocchi alle esistenze degli abitanti del pianeta che, in tutt’altre faccende affaccendati, non si avvedono del fatto che ogni forma di autonomia è una pia illusione. O meglio, di minuto in minuto, la quantità di scelte elaborate dai nostri cervelli è sottoposta ad un rigido controllo, un istante prima che produca esiti indesiderati e introduca qualche variazione nel “piano”. In questo scalcagnato e imperfetto sistema determinista, ai singoli è comunque lecito sperare in qualche scappatoia, se non altro contando sulla cronica mancanza di personale dell’Adjustment Boureau. Archiviata un’infanzia battagliera sui marciapiedi di Brooklyn, David offre il suo sorriso yankee in pasto a rotocalchi e telecamere e, a colpi di slogan e sondaggi, viene incoronato uomo dell’anno, mentre una frotta di finanziatori e consulenti d’immagine sceglie per lui tranquillizzanti cravatte e tasso di usura ottimale delle scarpe. La corsa a perdifiato verso il successo, immortalata con le consuete sovrapposizioni di immagini e filmati accelerati (si riconoscono, fra i vari, Bloomberg e il comico Jon Stewart), viene bruscamente interrotta quando una vecchia foto riemersa da qualche archivio ne decreta l’immediato declino politico. Nel giorno della caduta, ormai prossimo a pronunciare il discorso di fine campagna elettorale ai supporter, David incontra la donna dei suoi sogni, la misteriosa Elise, in una toilette pubblica. Di qui in poi, la pellicola procede su binari differenti, lasciando emergere a poco a poco i classici interrogativi dickiani (sul fato, il principio di autorità, la dignità umana, l’ignoranza e l’omniscenza), ma rinunciando alle atmosfere piovose e paranoiche di Blade Runner, in favore del sole pallido di New York. Nel volgere di poche ore, e non semplicemente per caso, David e Elise si ritrovano uno accanto all’altra sull’autobus e, giusto in tempo per la fine del viaggio, sembrano decisi a non perdersi più di vista. Peccato che il piano (provvidenziale?) di un fantomatico architetto (Dio?) abbia altrimenti disposto, costringendo i solerti impiegati della fabbrica del destino a rimettere a posto i tasselli, impedendo con ogni mezzo lecito ed illecito (in vista di un obiettivo di fronte al quale tutte sono pedine e nessuno dei presenti sembra tenere le fila) che i due protagonisti trascorrano la loro vita insieme. David dovrà lottare per salvare il sentimento che lo anima e la consistenza delle proprie scelte, sfidando i limiti dell’umana comprensione e disegni che non lasciano spazio a dubbi e incertezze di sorta. La profondità delle domande viene però fin troppo sacrificata alle esigenze spettacolarizzanti di un montaggio che predilige scene d’azione frenetiche e ragguagli pseudoscientifici (alla Inception), o concede fin troppo spazio all’evolversi della contrastata storia d’amore fra i due protagonisti, finendo per perdere tuttavia proprio in credibilità ed empatia. I guardiani del destino si pone in questo senso sul versante opposto a quello del capolavoro di Ridley Scott, suscitando la curiosa sensazione di essere in fondo ben lontani dai drammi dei personaggi, malgrado la pregnanza (storica ed emozionale) delle riflessioni filosofiche sottostanti. Affascinante rimane il percorso fantascientifico nei luoghi simbolo di una New York rivisitata, dove una bombetta e una maniglia sono sufficienti a far collassare le distanze geografiche e, dietro una porta chiusa, si può nascondere anche la Statua della Libertà.

 

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