Roger Michell è indubbiamente cresciuto con l’intelligenza ritmica di George Stevens e la forza causale e dirompente del cinema di Preston Sturges. Lo si avverte sin da quel Notting Hill diretto alla fine degli anni novanta, film che assorbe la tradizione della commedia americana classica da un punto di vista fortemente Inglese. Lo dimostrano anche i film successivi del regista nato a Pretoria, prodotti in contesto Britannico, tutti legati ad origini letterarie molto precise (Hanif Kureishi, Ian McEwan), molto meno contaminati da un punto di vista cinematografico e animati da una scrittura che, solo apparentemente, sembra esorcizzare la passione per i meccanismi detonanti della commedia Americana.
Con Morning Glory Mitchell sembra tornare dalle parti di Muriel Box che osserva, e per certi versi, reinventa il cinema di Hawks sfruttando gli ingredienti più tipici delle classiche battles of sexes per costruire dispositivi con figure femminili nella parte della miccia.
E’ un tono garbato quello di Mitchell, che da buon artigiano modula l’andamento ritmico del film dai migliori dialoghi Screwball, servendosi di un imprimatur già collaudato in questo senso, come quello siglato da Aline Brosh McKenna (Il Diavolo veste prada, 27 volte in bianco) e della coppia di produttori Abrams / Burke che garantisce un tocco tra ottima funzionalità televisiva e intelligente cultura Cinematografica “industriale”.
Una notevole Rachel McAdams è Becky Fuller, produttrice televisiva in prova, impegnata a risollevare le sorti di un programma di fascia pre-prandiale con l’inserimento di un noto anchor man avvezzo ad altre forme di giornalismo e interpretato da Harrison Ford.
Il contesto è quello classico della conquista del successo concentrato nello spazio dell’arena televisiva, come se i corridoi degli uffici, spazi in cui Mitchell si muove benissimo, non fossero più i luoghi deputati all’esplosione anarchica del set classico per lasciare il posto alla frammentazione della cataratta televisiva, al gioco sempre in bilico tra improvvisazione e simulazione della regia. Proprio qui Michell dimostra di poter contribuire ad un prodotto medio con una cultura visionaria e narrativa solidissima, basta osservare con attenzione al modo in cui i collegamenti esterni, relegati nello spazio di gag di contorno, marginali, sempre delimitati dalla cornice dei monitor, acquisiscono forza comica sempre maggiore con quel crescendo devastante che vede Becky prendere progressivamente in pugno la situazione e cambiare il modo di percepire il controllo della produzione sovvertendone tutte le regole.
Sono schegge di follia in vera e propria profondità di campo che hanno le stesso valore delle lotte forsennate dei corpi nel cinema di Sturges e che qui si annidano nell’ordito di una commedia sofisticata gradevole e apparentemente innocua, e che ci raccontano ancora una volta come il cinema di più puro artigianato Statunitense sia in grado su vasta scala, di lavorare sulla scrittura con un controllo peculiare della modulazione senza ricorrere alle scorciatoie di un post-moderno che è già relitto del relitto.