La rivisitazione delle fiabe tradizionali è entrata a far parte del DNA hollywoodiano dai tempi dei primi lungometraggi Disney, ma è tornata ora con prepotenza nel magma di reboot, sequel e prequel che domina da circa un decennio la produzione americana attuale. Se nei cartoon del secolo scorso le fiabe della buonanotte raggiungevano la lunghezza da grande schermo grazie al trattamento musicale e all’accorta caratterizzazione dei personaggi di contorno, negli ultimissimi anni il successo delle grandi saghe fantastiche ha indirizzato l’adattamento di queste narrazioni verso un’epicizzazione forzata, contaminando sempre più spesso il favolistico del “C’era una volta…” con l’High Fantasy di “Le leggende degli antichi popoli tramandano…”. L’operazione si è vista di recente in Biancaneve e il Cacciatore di Sanders (che ha doppiato al botteghino il Biancaneve rivale di Tarsem, che nuotava controcorrente verso un favolistico carnevalesco), si rivedrà l’anno prossimo in Malefica e può essere ricondotta al successo di pubblico dell’incupita e militarizzata Alice di Burton. Ne Il Cacciatore di Giganti, Singer e il fido scudiero McQuarrie si accodano alla stessa cordata e innestano sulla favola di Jack e il fagiolo magico un preambolo animato degno del Signore degli Anelli, completo di paladini leggendari, antichi scontri con una razza leggendaria e un gioiello magico per soggiogarla. Il contadino Jack e la principessina Isabelle crescono nella fascinazione per queste leggende, separati dalla classe ma destinati ad incontrarsi in avventura che scriverà nuove pagine nell’epica del borgo medievale di Cloister. Tutto ha inizio quando Jack va in paese per vendere un cavallo e un carretto e torna con in mano una manciata di fagioli magici, insospettabile ponte verso la Terra dei Giganti. L’intento di Singer si rivela quello di racchiudere in un film solo una storia che abbia il respiro e la spettacolarità di una saga, senza perdere ritmo e immediatezza. Si affida così ad una sceneggiatura ad orologeria che inanella scene madri e affretta vorticosamente i riempitivi romantici e i tempi di decompressione, affiancando all’eroe e alla principessa ulteriori Carte di Propp (il cavaliere galante, il re saggio, il consigliere malvagio, il giullare infido, tutti facce note, tutti poco impegnati), personaggi piatti e rigidamente codificati, classificabili alla prima espressione o battuta e pronti per essere sacrificati senza problemi alla successiva svolta di trama. Allo stesso modo, il nemico (guidato da un generale a due teste che ricordano rispettivamente l’ormai onnipresente Gollum) è dipinto come brutto, sporco e cattivo e animato da una stolida e poco intelligente fame di vendetta. Schierando in campo le squadre nella maniera più facile possibile, Singer si dedica per due ore all’azione pura, con una numerosa sequela di giri di giostra e trovate spettacolari. Nella perfetta esecuzione di questo forsennato esercizio di quantità, il regista si impegna a confezionare un 3D non disprezzabile, ma ormai cristallizzato su inquadrature diventate canone (e che stanno in effetti mutando l’estetica di una generazione di blockbuster): totale del personaggio, spesso inquadrato di tre quarti, incastrato tra un fondale lontano e una quinta di foglie/rocce/grate ad esaltare la profondità. Con la sua capacità di affastellare assaggi di vertigini una dietro l’altra, per togliere respiro al giovane spettatore, il Cacciatore di Giganti si dimostra un prodotto finemente standard, abilmente calibrato, da sezionare e presentare a modello al corso di onesta manovalanza cinematografica della Warner Bros, ma così disperatamente legato allo zeitgeist attuale e privo di scarti laterali o fughe in avanti da restare difficilmente impresso nell’immaginario molto più che per la durata di un weekend d’apertura. Singer, oramai, sembra poco interessato ad ambire ad altro.