Quando Pupi Avati è in stato di grazia ritrova la sua vena migliore, che si tratti di meste atmosfere natalizie o di fughe en plein air alla riscoperta di album di famiglia lungo la dorsale appenninica, quella che va dalla sua Romagna a questa terra di Marche, incanta per 85 minuti chi al cinema non chiede sempre capolavori, ma crede che anche il gusto semplice per sapori d’antan e una joie de vivre espressa con garbo, umorismo e freschezza di modi possa essere buon cinema. E poi, diciamolo, Avati sa far recitare gli attori, ha una capacità incredibile di trasformare il suo cast in un “perfetto insieme” (come recitava una volta uno spot pubblicitario), che si tratti di vecchi lupi da set come Orlando o Delle Piane, Abatantuono o Cavina, oppure novizi come Cesare Cremonini, prestato al cinema e subito reso piccola icona domestica nelle sue mani, da tutti Avati estrae il meglio; in una recente intervista ha infatti dichiarato che ciò che lo induce a scegliere un attore, è la curiosità, la stessa che lo ho spinto a scegliere Cremonini dopo averlo visto in una trasmissione televisiva mentre parlava della famiglia con una compostezza che eccedeva il ruolo di popstar. Cremonini è Carlino, un po’ tontolone e semianalfabeta, ma di gradevoli forme e ben dotato per i gusti delle ragazze del paese, e poi, con l’ alito al sapor naturale di biancospino (in una siepe in fiore pare sia stato concepito da mammà e papà), le mette tutte ai suoi piedi. Quando però s’ innamorerà cominceranno i guai. E’ il primogenito della famiglia Vigetti, padre, madre e tre figli, uno zio reso mezzo scimunito da una ferita della prima guerra, sua moglie, ex prostituta che lasciò il mestiere dopo aver perso un occhio (una irriconoscibile Sydne Rome) e vivono in un gran casolare nella proprietà di Sisto Osti (Gianni Cavina, che più invecchia più diventa pregiato) . Hanno un contratto di mezzadria, non se la passano troppo bene, com’era normale allora in quelle condizioni, ma tra loro c’è un bel legame solidale, l’unico figlio che studia, Edo di terza media, fa i suoi bravi temini che la voice over ci legge mentre racconta la storia e fa il punto sui momenti indimenticabili della sua vita, come “…il giorno in cui mio fratello fu vestito per andare a morosa” Carlino, infatti, deve scegliere una delle due figlie di Osti, Maria o Amabile, due “signorine Felicite” in sedicesimo che Osti (o meglio, la seconda moglie, romana purosangue dotata di lessico trasteverino doc) vuol sistemare comunque sia, visto che nessuno le ha mai chieste in moglie. Osti appartiene a quella categoria di agrari che con gli industriali del nord fecero ripiombare l’Italia del XX secolo in piena età feudale, siamo negli anni ’30 e qualche battuta sul Duce è messa al posto giusto, insieme alla divisa da Balilla di Edo, al macchinone del cugino del “mascellone” che passa in fretta dall’amante che ha in paese e al sidecar rombante del giovanotto in camicia nera e in carriera. Pennellate discrete a dipingere un mondo lontano, incapace di cogliere sintomi e segnali, tutto doveva ancora accadere e quel mondo essere spazzato via brutalmente, prima dalla guerra e poi dal pasoliniano “sviluppo senza progresso”. Ora però Avati sceglie di mettere in scena il ricordo che tutto sfuma, racconta la storia vera dei suoi nonni ricostruita come una favola su memorie di famiglia e ci immerge in un’atmosfera incantata dove tutto sembra poter restare così com’è, le ragazze si fanno cucire il corredo, chiudono un occhio, anzi due, sulle scappatelle del marito, perché il loro cuore è grande e gli uomini “ hanno quel problema!”, le bruttine non maritate ma tanto ben educate e, soprattutto, benestanti, possono comprare un marito con una Guzzi e un contratto decennale di mezzadria per la di lui famiglia, quelle più stagionate e meno abbienti si fanno venire i lacrimoni se ricamano la camicia della prima notte alla bella che sta per convolare a giuste nozze, insomma un mondo dove vivere era forse duro, per tanti versi, sembra suggerire Avati, ma c’era ancora spazio per certi umori, sentimenti, forme semplici del vivere e, soprattutto, per la voce della natura, quella che lui colora sempre di filtri dorati e primaverili. L’arrivo di Francesca, figlia di primo letto della seconda moglie, adottata da Osti e tenuta a studiare a Roma dalle suore, scombussola i piani di tutti, è troppo bella per non colpire Carlino e Carlino, con quel profumo di biancospino, fa anche su di lei la sua magia. Maledizioni di padre e madre, languori delle due sorelline, la nonna di casa Osti che pontifica contro tutti non riescono a separarli, e neppure il prete che si è operato alle tonsille proprio il giorno del matrimonio e ha chiuso la chiesa. Le situazioni di puro divertimento non finiscono più, la storia va avanti e pensare che è vera ne aumenta la simpatia, l’happy end tarda un po’ ad arrivare per via di quel vizietto molto maschile di Carlino che rischia di rovinare tutto sul più bello ma… il cuore delle ragazze è davvero grande! Frutto di un’operazione a basso costo, come ha raccontato Antonio Avati descrivendo un set “non ricostruito”, molte riprese dal vero e una troupe ridotta, impiegata nella città di Fermo, apporto scenografico naturale fondamentale per la resa del film. Il cuore grande delle ragazze è un raccontare l’attaccamento verso quelle cose della vita fra cui cresciamo, quasi non ci accorgiamo e un giorno riscopriamo in foto dimenticate, dove un nonno, circondato da donne del paese, suscita qualche curiosità, sono le sue donne, era normale allora esibirle in foto ricordo, qualche rabbia di troppo della nonna passava presto. E allora si torna con la memoria a ricostruire un costume, un’epoca, la vita fornisce lo spunto e l’autore confeziona una storia con incipit, diegesi ed epilogo, l’affida al cinema e finisce che le “vecchie cose di pessimo gusto” si riscoprono ancora piacevoli da riscoprire, un po’ si sorride e un po’ si cerca di capire come eravamo e come siamo, ma soprattutto molto si sorride se garbo, spirito, ritmo del racconto e bella recitazione sono in giusto dosaggio.