“La sua ironia è atroce”
“L’ironia è l’unico rimedio che abbiamo contro la morte, e tutti i rimedi contro la morte sono atroci”
Non si può dire che Paolo Sorrentino non sia un regista ambizioso. Pensa un film su una delle figure più importanti della storia politica italiana. La colloca per di più in uno dei più delicati passaggi della vita repubblicana. Cita titoli illustri del cinema di denuncia degli anni Sessanta e Settanta (in particolare Todo Modo di Petri e il Rosi di Cadaveri eccellenti e il Caso Mattei) e si confronta apertamente con due (dei pochi) consolidati autori italiani contemporanei: il Moretti del Caimano, al quale aveva partecipato nelle vesti inedite di attore, e il Bellocchio di Buongiorno Notte. Ne esce miracolosamente a testa alta scegliendo la via meno facile, quella di una rilettura che piega il discorso politico al servizio di un’estetica fiammeggiante, di un’emozionalità finalmente tutta cinematografica. Proprio a quella che ci sembrava la parte migliore del Caimano, libera da ogni fastidioso autobiografismo, quel finale incendiario, cupo, onirico che lanciava allarmanti profezie sul futuro dell’Italia sembra ricollegarsi Sorrentino, ribaltando lo sguardo verso un passato che si perpetua nel presente (quei telegatti in bella vista, le invettive contro la magistratura…) e che sembra tendere, nella dimensione notturna, vampiresca dell’incubo, ad una eternità immutabile.
La figura quasi metafisica, sicuramente mefistofelica di Andreotti ha in sé tutte le caratteristiche dei protagonisti sorrentiniani: è ricca di ambiguità, sebbene chiaramente con un lato oscuro preponderante, è una maschera disillusa ed ironica, ha vissuto un periodo di ascesa ed uno di lenta caduta (da sempre le ambizioni di Sorrentino guardano idealmente alle parabole epiche di Scorsese/Coppola/Leone), rappresenta una parte dell’Italia omertosa, quantomeno vile, piena di piccoli vizi, di vanità, di egoismi più di un qualsiasi amico di famiglia di provincia. Ma soprattutto Andreotti ha un catalogo ricchissimo di aforismi al quale Sorrentino può attingere, liberandosi dal vincolo di una sceneggiatura che sembra costruirsi da sola su un collage di citazioni ed episodi. Se la ricerca forzata della frase (e della soluzione narrativa) ad effetto era uno dei limiti più evidenti del precedente cinema di Sorrentino, con dialoghi talvolta così scritti da risultare convincenti se messi in bocca ad un Servillo, meno ad una nipote della Magnani qualsiasi, nel Divo il gioco sulla sentenza, sulla parola scolpita nell’aria, diventa parte di un caleidoscopio sinestetico al quale, specie nella prima parte, è difficile resistere.
La tentazione dell’eccesso faceva capolino nei film precedenti ed era forse il tratto, in fieri, più convincente del cinema di Sorrentino. Almeno quello più originale rispetto alle tendenze rigorose e spesso rigide del giovane cinema autoriale italiano.
L’idea forte del film, chiara fin dai titoli di testa, è proprio quella di trasfigurare con uno stile esagitato, a caratteri cubitali, spettacolarizzare insomma tutto quello che sta intorno alla figura di Andreotti. Da un lato c’è il Divo che cammina in silenzio, circondato dalla scorta durante le passeggiate nelle notti insonni, si muove nella penombra delle sue stanze con movimenti impercettibili come una creatura del silenzio e dell’oscurità, impenetrabile custode, archivista di segreti di stato, figura cardine al centro di un crocevia di poteri (chiesa, stato, mafia, magistratura, stampa). Dall’altro c’è un balletto frenetico di figure grottesche, di manichini/sosia caricaturali che di questo potere sono rappresentanti, destinati per altro a sparire nel nulla nel giro di un decennio. Un teatrino filmato con soluzioni che ora fanno pensare alle rivisitazioni postmoderne del genere di Leone e De Palma (l’arrivo della corrente andreottiana) ora a certi deliri parafelliniani di un Ken Russell (il ballo nelle sale di montecitorio, con un istrionico, indimenticabile Cirino Pomicino). Il tutto inframezzato da stragi filmate con rinnovata immoralità con zoomate improponibili come non si vedevano da anni in Italia, sangue, vorticose carrellate (quasi zulawskiane nel loro ipercinetismo), simbolismi assortiti, prospettive grandangolari, angolazioni e soluzioni di montaggio insolite ritmate con un virtuosismo audiovisivo finalmente non stucchevole, come si addice ad una vera opera rock.
Si smarrisce presto, nella vertigine, il senso del biopic andreottiano per incentrarsi sulla rappresentazione cangiante, multiforme, variegata ed infine astratta del potere. Una scorta armata in una chiesa, un prete che passa dalla confessione alla chiacchiera politica, la passeggiata d’amore per metà in bianco e nero in un cimitero, un giornalista che assomiglia a Scalfari che in un colloquio immaginato vede le proprie domande riflettersi ed infrangersi grazie ad un acuto ribaltamento di prospettiva. Con consapevolezza autoriale Sorrentino si limita ad insinuare il dubbio attraverso l’affastellarsi delle domande, specie nella seconda parte, didascalica, che sembra una versione pop, ironica e dinamica, del sottovalutato, brechtiano Segreti di Stato di Benvenuti. Sorrentino si diverte persino a mettere in bocca ad un Andreotti improvvisamente eccitato (il campionario di gesti, vocalità e posture di Servillo è magistrale) un’improbabile, multipla confessione di colpevolezza. Nella realtà quelle rimangono domande, schivate col solito aforisma, destinate soltanto ad ingigantire il mal di testa del Divo, la reale tragedia di un uomo ridicolo, di un semplice impostore forse (che “meglio di tutti sa come stare al mondo”) fino all’implosione di un finale intimo, esasperato, ancora una volta imperfetto, (o)stentato nella sua lunghezza, tra un processo e l’altro destinato a finire nel nulla, senza che questo possa scalfire l’uomo quanto il fantasma (e il j’accuse) di Moro.
Perché la sensazione che il film lascia, aldilà dei significati che non pretende di avere, è quella di aver provato sulle proprie spalle il peso di una meschinità tipicamente italiana, di una mediocrità malcelata che soffre il confronto con i meriti riconosciuti dalla Storia. Il Divo, come e meglio de Il Caimano, finisce per parlare di noi, delle nostre piccolezze. E lo sguardo della moglie sul volto di Giulio sulle note di Renato Zero vale mille denunce urlate. (Forse) sottintende la ricerca di una verità che spaventa, il sospetto, la paura di un orrore, di uno sguardo oltre la soglia, al di là delle maschere che quotidianamente indossiamo.