“Le apparenze ingannano”. È il leit motiv dell’ultimo film di Mira Nair, Il fondamentalista riluttante, apparso nelle sale italiane a nove mesi dall’uscita veneziana. Dopo tanta attesa, il risultato è la sconnessa biografia intellettuale di un pakistano laureato a Princeton e trasformatosi, suo malgrado, in un carismatico leader spirituale. L’obiettivo rimane sempre pericolosamente fuori fuoco, e uno script che non punta mai dritto alla meta è il peccato capitale di un film che preferisce suggestioni di superficie e macchie di colore all’approfondimento di caratteri e contrapposizioni ideologiche, affidandosi alle parole (il didascalico monologo-racconto di Changez) senza riuscire quasi mai a suggerire con le immagini. Il libro da cui il film è tratto è quel “The reluctant fundamentalist” che valse allo scrittore (e co-sceneggiatore) Mohsin Hamid un posto in finale al Booker Prize. Eppure è proprio la difficoltà di trovare un’amalgama fra parole e immagini, dimensione narrativa e iconica che finisce per oscurare le potenzialità offerte da un punto di vista non usuale sull’11 settembre e su quel che ne seguì – quella di un uomo in bilico fra tradizione e rampantismo yankee, vorticosamente attratto dal sogno americano e risucchiato dalle proprie radici. Di carne al fuoco ce n’è, anche troppa. Una distribuzione dei tempi narrativi squilibrata (prolissa la parte americana, oscura quella pakistana) e qualche tentazione alla Rashomon (tante verità per tanti protagonisti) non contribuiscono al clima. Un professore americano di stanza a Lahore, in Pakistan, è rapito da un gruppo islamico. Fra i principali sospettati c’è Changez Khan, presunto esponente della militanza accademica pakistana, brillante professore con un seguito di allievi infiammati dal vento della ribellione. In una taverna, Changez incontra Bobby Lincoln, bolso giornalista americano che da tempo aspetta intervistarlo. Mentre Bobby ha solo una domanda in testa (“Dove si trova il professor Rainier?”), Changez ha voglia di raccontare come dal Pakistan è arrivato a Princeton e ai grattacieli della finanza newyorchese, per poi tornare fra i meandri di Lahore, passando per la storia d’amore con una fotografa ereditiera in lutto per un boyfriend finito male. In mezzo l’11 settembre e la xenofobia che avvolge la grande mela, lasciando fuori un musulmano con la barba (il volto di Changez che guarda la tv, incorniciato da una nuvola di fumo, si riflette sullo schermo mentre crollano le torri), anche se fa l’analista finanziario e veste in giacca e cravatta. Mira Nair fotografa un mondo sfaccettato, rimbalzando, di luogo in luogo, le medesime domande: “Chi siamo noi?” e “Che cosa è giusto?”. L’America delle grandi opportunità o il gigante da abbattere? Il Pakistan alla ricerca di uno sviluppo autonomo o il covo di terroristi da stanare? L’avvio promette bene: mentre il tam tam cadenzato del canto scandisce una sgargiante festa locale, il professor Rainier è picchiato e gettato in un’auto. I frammenti delle due scene si alternano in un crescendo drammatico, mentre emerge, fra gli invitati alla festa, il professor Khan, che guarda nervoso il cellulare. Changez e Bobby compiono un percorso speculare. Entrambi conoscono cultura e lingua dell’altro. Se il primo è tornato a Lahore dopo un immersione in un’esistenza altra, Bobby – un tempo sensibile alla causa araba – è ormai un partigiano degli Stati Uniti d’America. Il continuo mutare del rapporto di forze tra i due (se Changez non parlerà, la sua famiglia rischierà di essere arrestata; se Bobby insisterà troppo gli studenti insorgeranno) frantuma l’unità del racconto di Changez, costringendo i due a continui spostamenti all’interno dell’edificio (fra lo spazio occlusivo della sala da pranzo piena di ragazzi e lo spazio aperto della terrazza). Tuttavia il fascino della prospettiva multifocale da cui si guarda non risolleva un film privo di un ritmo interno autonomo, dove tutto sembra lasciare tracce a scoppio ritardato in un eterno rinvio di quell’attimo cruciale verso cui tutto sembra tendere. E che alla fine nemmeno arriva.