La Recensione di Federico Fragasso fa il paio con quella di Alfonso Mastrantonio che potete leggere da questa parte, entrambe costitiscono lo speciale “sdoppiato” dedicato a “il Gioiellino” di Andrea Molaioli.
“Da qualche decina d’anni la storia dell’industria e del commercio non è che la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione… Basti ricordare le crisi commerciali, che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosamente mettono in forse l’esistenza di tutta la società borghese…. Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio… Con quale mezzo riesce la borghesia a superare la crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire la crisi.”
Eccettuate alcune rigide categorizzazioni, che potremmo tranquillamente conservare in formalina, le tesi che Marx ed Engels davano alle stampe nel 1848 prefigurano in maniera sconcertante il crack del ’29, come anche la situazione imbarazzante in cui versa attualmente l’economia globale. Al contrario di quanto auspicavano i due filosofi tedeschi, tuttavia, il capitalismo – nella sua accezione di sistema produttivo, ma anche e soprattutto di filosofia produttiva – non si è mai estinto. Ha ideato stratagemmi sempre nuovi per procrastinare la fine, rialzandosi più debole dopo ogni sconfitta, eppure restando tenacemente aggrappato all’esistenza. Questo processo ha determinato un’astrazione del settore economico dal piano della realtà concreta, che si è fatta più marcata negli ultimi decenni: dalla produzione e dal commercio, il fulcro del sistema organizzativo e decisionale ha progressivamente rivolto l’attenzione ai giochi della borsa e alle manipolazioni finanziarie. Manchester veniva foscamente descritta da Engels come centro delle sperequazioni che affliggevano al tempo la società inglese. Eppure l’industria tessile del XIX secolo appare incredibilmente sana, e persino etica, se confrontata con la situazione del moderno capitalismo. I pilastri cui l’intero sistema si appoggiava, per quanto espressione di una redistribuzione iniqua delle risorse, erano costituiti da elementi solidi e presumibilmente duraturi: finanziamenti in moneta sonante, macchinari, lavoro, prodotto. Le procedure fantasiose attorno alle quali ruotano i cardini dell’economia attuale, al contrario, sono difficilmente comprensibili per chiunque sia estraneo al loro universo specifico. L’espressione finanza creativa potrebbe in parte riassumerle, a patto di accettarla per il mero eufemismo che è. Con toni politicamente meno corretti, la frase che campeggia sui manifesti de Il Gioiellino, ultima fatica del promettente Andrea Molaioli, sembra trasmettere il concetto in maniera ben più nitida: se i soldi non ci sono, inventiamoceli. La vicenda di Amanzio Rastelli (un Remo Girone che si ispira alla figura del patron Parmalat, Callisto Tanzi) va a braccetto con le metamorfosi del sistema economico: rappresenta una volontà di esserci che esula lo scopo ultimo della propria esistenza, eludendo un interrogativo che dovrebbe determinare l’azione di qualunque imprenditore responsabile. Creare ricchezza – capitale reinvestibile – diventa dunque un obiettivo che passa in secondo piano rispetto alla necessità di conservare la propria posizione (e il proprio fittizio prestigio) sul mercato. Per fare ciò tutto diventa lecito: falsificare i bilanci, appoggiarsi a finanziamenti discutibili, ingraziarsi i politici, corrompere chi vigila sulla propria attività. Il personaggio di Girone (un imprenditore vecchio stampo che non solo rifiuta di vendere, anche di fronte al tracollo finanziario, ma pretende di conservare la maggioranza assoluta delle azioni una volta che la sua azienda si quota in Borsa) finisce così per costruire un gigante dai piedi di argilla, scavalcando le avversità e perseverando nel proprio operato criminoso con una goffaggine e una leggerezza che lo rendono persino simpatico. Rastelli in fondo è un idealista sui generis: un uomo ossessionato da una visione di successo globale (eppure orgogliosamente provinciale), che fa fatica ad abbandonare anche di fronte alla tragica realtà dei fatti (esemplare da questo punto di vista la volontà di mantenere, seppur in perdita, la società calcistica che fa capo all’azienda). E come tutti gli idealisti è ben poco avvezzo alle questioni materiali, per le quali si affida totalmente all’acume del fidato ragioniere capo, l’intrattabile e impenetrabile Ernesto Botta (il Fausto Tonna di Parmalat). Il personaggio interpretato da Toni Servillo, il vero capo di Leda come lui stesso si definisce, è una figura speculare a quella del diretto superiore, e finisce per assumere pari statura e pari responsabilità nella determinazione degli eventi. È lui a ad architettare le macchinazioni, gli inganni, i sotterfugi che permettono di mettere concretamente in atto le ambizioni di Rastelli. Se è vero che l’esistenza da grigio burocrate e il cinismo di Botta si contrappongono al candore e alla liberalità dell’industriale, va anche detto che il personaggio di Servillo dimostra un suo perverso codice etico, tanto più stridente nel contesto di azione fraudolenta in cui emerge. Botta rifiuta categoricamente di rubare alla propria azienda, e tenta fino all’ultimo momento di stilare un piano di risanamento industriale. Rastelli, al contrario, non si fa problemi nell’attingere ai fondi aziendali per soddisfare i propri capricci o quelli del figlio, ed altrettanto tranquillamente scarica le responsabilità del fallimento sulle spalle di familiari e collaboratori. Oltre al duello di personalità che si instaura tra i “grandi vecchi” di Leda, Il Gioiellino porta in superficie uno scontro generazionale interno al sistema. Laura Aliprandi (interpretata dalla convincente Sarah Felderbaum) e Filippo Magnaghi (Lino Guanciale) interpretano gli aggressivi rampolli che, con lauree e master da un lato (laddove i capi si fermavano al diploma di ragioneria), con impeccabile padronanza dell’inglese dall’altro (lingua che Botta studia per necessità, ma detesta), si contrappongono alla vecchia guardia. Un contrasto che entrambi rendono esplicito nel rapporto col ragioniere capo: se il personaggio della Felderbaum, apparentemente funzionale a far emergere l’umanità sepolta del contabile, si rivelerà in prospettiva tanto più spregiudicata di lui, Guanciale ha il compito di dare voce al senso etico e all’indignazione dello spettatore, subendo per intero il logorio interiore derivante da quel senso di colpa che i colleghi non sembrano minimamente avvertire. È stato giustamente osservato che, nella cornice della narrazione, mancano del tutto i riferimenti al destino dei piccoli risparmiatori – coloro che in massima parte hanno accusato le conseguenze economiche del crack – e al processo. Ma non è un caso se la vicenda viene trattata da questa angolazione. Del resto, titolari di obbligazioni e azionisti di minoranza non vengono minimamente tenuti in considerazione dai dirigenti, quando si tratta di delineare la disastrosa strategia aziendale. A tutti gli effetti, per chi tira le redini di Leda, i creditori non esistono. Molaioli evita così di scadere in facili melodrammi, concentrandosi sulle dinamiche psicologiche che hanno portato alla pianificazione della grande truffa: un progressivo scivolamento verso il baratro, tanto più vergognoso perché chiaramente prevedibile; un percorso di dannazione, in cui ogni tappa è superata con maggiore leggerezza rispetto alla precedente. Altra grande assente nella narrazione è la politica. I suoi rappresentanti sono prontissimi a dispensare cattivi consigli e a godere dei favori che vengono elargiti loro finché la situazione sembra reggere; altrettanto prontamente si dileguano quando il tracollo finanziario risulta ormai evidente. E questo nonostante la compenetrazione della Leda all’interno del tessuto economico nazionale sia ormai talmente elevata da esigere necessariamente considerazione da parte di chi ricopre posizioni di responsabilità pubblica. La visita di Rastelli presso la residenza del presidente del consiglio, al contrario, non fa che evidenziare questa assenza, ricorrendo ad un raffinato linguaggio metaforico: quando l’industriale estrae una copia della Bibbia dalla libreria presidenziale scopre che si tratta di un involucro vuoto; la figura del presidente non viene mai mostrata, l’unica menzione che lo riguarda è la raccomandazione di Rastelli al figlio di “ridere delle sue battute”. Come nel precedente La Ragazza del Lago, le musiche di Teho Teardo commentano efficacemente lo svolgersi del dramma: il tema malinconico che sottolinea i titoli di testa si evolve fino a deflagrare prepotentemente nelle concitate sequenze finali. Frattanto i dipendenti di Leda, informati di un’incursione della guardia di finanza, si affannano a triturare documenti contabili e prendono i computer a martellate, nel tentativo di rendere inservibili le loro memorie sintetiche. La speranza, invece, è che un film come questo serva proprio affinché la nostra memoria storica non vacilli. La battuta che ci è parsa più inquietante, non a caso, è quella che Rastelli rivolge agli inquisitori della Consob dopo la dichiarazione di fallimento: “la Fiat sta peggio di noi, Telecom non ne parliamo… perchè dobbiamo essere gli unici a sparire?”