La recensione di Alfonso Mastrantonio fa il paio con quella di Federico Fragasso che potete leggere da questa Parte, entrambe costitiscono lo speciale “sdoppiato” dedicato a “il Gioiellino” di Andrea Molaioli.
Cinque anni fa il debutto di Andrea Molaioli con La Ragazza del Lago era stato salutato, con una certa superficiale fretta, come una ventata di aria fresca nel panorama piuttosto indistinto identificato con la ficcante definizione di Cinema Medio d’Autore Italiano da Vincenzo Buccheri. In realtà già allora l’ex assistente di Moretti aveva saputo semplicemente riunire sotto il proprio sguardo elegantemente frenetico una serie di mood e professionalità che già si stavano affermando attorno al cinema di Sorrentino e che ora, col proliferare di svariati epigoni più o meno riusciti, rischiano la fastidiosa formulaicità del canone: l’intelligente produzione Indigo, l’elettronica nervosa di Teardo, i personaggi alteri e mascalzoni di Servillo, La fotografia algida (anche se più “smarmellata” del solito) di Bigazzi. Ottimi ingredienti che sembrano accontentarsi della propria almagama, risultando in un prodotto affatto scadente ma piuttosto dimenticabile, nonostante maneggino uno dei soggetti più coraggiosi e scottanti degli ultimi anni di cinema italiano. In un’Acqui Terme che interpreta egregiamente il ruolo della Parma abbiente e boriosa dei Tanzi, si consuma l’inesorabile corsa verso il fallimento della Leda, azienda famigliare di latticini che si trova a giocare nel campionato dei grandi squali e rimane inevitabilmente schiacciata dalla sproporzione tra le proprie ambizioni e i mezzi, anche umani, a disposizione. Nell’inflazione di sventagliate e carrelli circolari, la macchina da presa di Molaioli posa il suo sguardo principalmente sulle dinamiche di palazzo: Girone è un antico patron sentimentale incastrato in un gioco più grande di lui, che non molla l’osso per la provinciale paura dell’onta del fallimento; la nipotina viziata e fresca di università della Felberbaum, è una semplice funzione narrativa romantica, ma avvisa comunque lo zio in tempi dell’accanimento terapeutico con cui sta mantenendo in vita l’azienda. Il Tonna (qui Botta) di Servillo è un ragioniere cinico e abile che gioca a fare lo squalo, ma è comunque mosso dall’affezione fortissima per l’azienda e finisce per abbandonare per ultimo la barca, per giunta lasciando in eredità una soluzione per salvare la baracca. Ricapitolando, se i principali protagonisti del Crac Parmalat, seppure dopo mille traversie, sembrano essere tra i pochi colpevoli di questo paese ad andare incontro ad un’effettiva condanna, le maschere a loro ispirate ne Il Gioiellino se la cavano tutti con l’attenuante di quelli che, in fondo, agivano con passione e sentimento . Alcune pregevoli fiammate (l’escalation internazionale gonfiata del marchio Leda, il mendicare tra banchiere sempre meno raccomandabili , la scena della distruzione dei documenti) si perdono nella fuoco lento e poco incisivo di storie d’amore posticce, serate in compagnia di donnine decadenti e drammatiche crisi di coppia. Ciò che rimane confinato in un sottofondo distrattamente alluso è il nucleo più pulsante e vergognoso del peggior crac della Seconda Repubblica: l’indefesso e consapevole spalmamento del buco finanziario sulle spalle dei piccoli risparmiatori da parte delle banche e degli amministratori conniventi, drammatica routine della crisi mondiale operata con ulteriore sprezzo del pudore nell’italianissimo caso Parmalat. Tutto questo fa paludato brusio ad un’altisonante caratterizzazione dei personaggi, che La trasposizione della cronaca compiuta da Il Gioiellino si risolve così in un contenuto che non aggiunge nulla (semmai sottrae qualcosa) a ciò che già si conosceva, una confezione sopra alla media nazionale e la sensazione amara di un’occasione perduta.