[Leggi anche la recensione del film scritta da Diego Baratto. n.d.r.] Jacques Cormery, affermato scrittore residente in Francia fa ritorno ad Algeri, sua città natale, spinto dal desiderio di conoscere qualcosa in più sul padre, deceduto in guerra quando lui era molto piccolo, e per rivedere la madre anziana alla quale è molto legato. In questo viaggio a ritroso nei luoghi dell’infanzia Jacques avrà l’opportunità di riconsiderare le sue scelte e le sue posizioni, confrontandosi con chi rimasto in patria ha una visione differente dalla sua, con i ricordi della sua vita in una famiglia povera composta da persone semplici ma forti fino a fare chiarezza dentro di sé e a guardare la realtà dell’Algeria con una nuova coscienza.
Il regista Gianni Amelio ha raccolto la storia scritta da Albert Camus e ne ha saputo ritrovare echi e similitudini della sua, nell’infanzia dell’autore ad Algeri non troppo dissimile dalla sua in Calabria negli anni 50, nella mancanza del padre e nelle figure della madre e della nonna che lo hanno cresciuto. Sovrapponendo esperienze, dialoghi e suggestioni ne ha tratto un film preciso ed essenziale che è la storia di un uomo, di un popolo ma anche di un’umanità che non ha paura di ammettere e di guardare in faccia le sue contraddizioni.
Durante l’incontro moderato da Davide Magrelli che ha seguito la proiezione per la stampa al cinema romano 4 Fontane, Gianni Amelio ha parlato del suo personale legame con la storia raccontata: «Credo di essere stato scelto per dirigere questo film proprio in virtù del mio background: sono stato allevato da mia madre e da mia nonna in Calabria negli anni 50 in condizioni non troppo differenti da quelle del protagonista, ho dovuto cominciare a lavorare molto presto e ho ricevuto aiuto e incoraggiamento da un insegnante.
Ho cercato di dare qualcosa di mio soprattutto tramite i dialoghi, che non sono tratti dal libro di Camus, ma sono mie memorie di vicende vissute in famiglia.»
Sulla componente storica e politica indubbiamente presente nel racconto del film, rispondendo ad una domanda su un parallelismo tra Il primo uomo e La Battaglia di Algeri di Pontecorvo, il regista spiega: «La Battaglia di Algeri è un film che fu voluto dal governo algerino con lo scopo di celebrare una vittoria ed è quindi una cronaca portata sullo schermo. Io ho fatto un film su una guerra che può dividere due etnie. Due giornalisti algerini che hanno visto il film hanno dichiarato che Il primo uomo è il primo film che storicizza in modo preciso le 2 posizioni diverse che convivevano in Algeria. La realtà di oggi è più vicina alle idee di Camus e forse è per questo che ora lui è capito meglio di quanto lo fosse negli anni 60 quando era considerato un uomo di destra, al contrario ad esempio di Sartre che sosteneva che l’Algeria dovesse essere degli algerini, adottando una posizione semplificatrice che forse non teneva conto della complessità della questione. Camus che aveva vissuto questa realtà dall’interno ha incontrato sicuramente più difficoltà nello schierarsi da una parte piuttosto che dall’altra.»
Il primo uomo è un film nel quale convivono molteplici realtà, dal racconto di formazione, alla questione politica; a proposito di questa molteplicità di aspetti Amelio traccia quasi un manifesto sul suo lavoro di autore: «Quando faccio un film non mi metto certo a calcolare con un bilancino da farmacista quanto c’è di attuale, quanto di storico, quanto di autobiografico. I film si fanno con la pancia, ma sicuramente dopo un’attenta riflessione. Io sono contro i film che hanno una tesi da sviluppare, al contrario sono per un cinema che emozioni, e mi piace che lo spettatore sia complice di questi sentimenti. Per me la “Storia” deve necessariamente passare attraverso la “storia” di un singolo individuo.»
Tanta parte del racconto riguarda l’infanzia di Camus, il rapporto con i familiari, gli adulti e gli altri bambini. Interpreti principali il piccolo Nino Jouglet e Djamel Said rispettivamente nel ruolo del giovane Camus e di Hamoud, un bambino algerino che dopo una lite che li aveva divisi a scuola chiede aiuto alla scrittore per il figlio condannato a morte per atti terroristici.
«Io non sono un regista di bambini, ma ricordo la lezione di Luigi Comencini quando diceva che “ i bambini non si dirigono, si scelgono e si lasciano liberi si essere se stessi adattando le loro caratteristiche a quelle del personaggio. In tutti i miei film i casting per trovare dei piccoli attori sono sempre durati pochissimo. Per questo film credo di averne visti migliaia perché non riuscivamo a trovare un accordo con il produttore francese. Ho dovuto quindi provinare anche migliaia di genitori che si portavano dietro bambini che non avevano chiaramente nessuna voglia di fare un film. Alla fine abbiamo deciso di optare per il sistema “all’italiana”, ovvero un casting per strada in cerca di un bambino che avesse le caratteristiche che ci servivano. Quando ho visto Nino, che si trovava a Parigi per puro caso, non ho avuto dubbi. Il giovane che interpreta Aziz, il figlio Hamoud invece lo abbiamo scovato nel mercato ortofrutticolo nel quale lavora. Ulla Baugué che interpreta la nonna aveva lavorato in teatro ma mai nel cinema, mentre Catherine Sola, la madre da anziana, non recitava da circa 25 anni. Ho avuto il privilegio di lavorare anche con eccezionali attori professionisti francesi tra i quali ricordo Regis Romele che ha un piccolo cameo nella parte di un macellaio, una persona umanamente preziosissima. Ci siamo sentiti tutti molto uniti durante le riprese, malgrado le condizioni di partenza fossero tutt’altro che semplici non c’è mai stato un momento di scollamento tra attori, regia e troupe, ma camminavamo tutti insieme per raggiungere un certo risultato.»
Maya Sansa, unica interprete italiana: «Gianni è molto stimato in Francia e per i miei colleghi è stato un vero onore poter lavorare con lui, lo hanno adorato tutti. Quando sono arrivata sul set le riprese erano già cominciate da un mese e trovato subito una grande collaborazione tesa a realizzare ad ogni costo il progetto del nostro regista. Confermo che le condizioni erano davvero precarie e forse un’altra troupe avrebbe rinunciato. Io ho incontrato Gianni a Parigi 2 anni fa in un momento particolare della mia carriera: vivo in Francia anche se torno spesso a Roma e in quel periodo avevo voglia di lavorare di nuovo in un film italiano. Avendo fatto il liceo classico avevo avuto modo di studiare Camus, ho letto Lo Straniero, La Peste e Caligola ma non conoscevo Il primo uomo. Dopo l’incontro con Gianni l’ho letto immediatamente, anche se lui mi ha spiegato da subito che la storia avrebbe toccato anche la sua infanzia.
La scena che senza dubbio amo di più è quella in cui il bambino va a trovare la madre mentre è al lavoro all’ospedale di Algeri e lei gli da per pranzo il cibo che servono là spiegandogli che quello è un “cibo da ricchi”. Il figlio le chiede quindi chi siano i poveri e lei risponde “Noi siamo i poveri, io, te, tua nonna e tuo zio. Mi commuove pensare che quella in realtà è una conversazione che Gianni ha realmente avuto con sua madre quando era piccolo. Posso dire di aver avuto un doppio onore: quello di lavorare con Gianni Amelio e di incarnare la figura di sua madre.»
La ferita aperta della mescolanza di nazionalità di chi è francese ma è nato in Algeria e di chi invece vi è nato per poi trasferirsi in Francia è un altro complesso tema che si snoda in tutto il racconto rincorrendosi tra passato e presente: Amelio «Sono passati 50 anni dalla rivoluzione algerina e alcune ferite non si sono rimarginate. Mi sorprende molto il fatto che ancora nessun giornalista di nazionalità francese si sia espresso in proposito, ma il film là deve ancora uscire, sarà nelle sale in ottobre. Ho il sospetto che potrebbe essere erroneamente percepito come un film di propaganda filo-algerino.»
Catherine Camus, figlia dello scrittore premio Nobel, che ha curato la ricostruzione filologica del manoscritto incompiuto ritrovato nell’auto a bordo della quale morì il padre nel 1960 e che è stato pubblicato nel 1994, è stata la prima spettatrice del film: «Lei aveva un contratto speciale con una clausola che l’avrebbe autorizzata a rimuovere il titolo del romanzo e il nome del padre dalla locandina se il film non avesse dovuto rispondere alle sue aspettative. Il produttore si era preoccupato di nascondermi questo piccolo dettaglio ed io l’ho scoperto quando ormai le riprese volgevano al termine. Mi sono ovviamente incazzato moltissimo, ma per fortuna lei lo ha molto amato. Ho ricevuto una bellissima lettera scritta da lei, e mi rende particolarmente felice che abbia amato il contesto di doppia autobiografia su cui io ho lavorato. Lei lo ha considerato come un approfondimento. Ha anche molto apprezzato l’interpretazione di Jacques Gamblin, mi ha detto che lo ha accettato nei panni di suo padre fino dalla prima inquadratura, nella scena che si svolge al cimitero. Io non sono un camussiano e quindi non sono stato scelto da Catherine nello specifico, ma dal produttore Bruno Peserey. Il film l’ho scritto da solo nel mio francese maccheronico proprio per cominciare a pensarlo nella lingua di Camus. La preoccupazione di Catherine non era per la rappresentazione pubblica di suo padre, ma per l’aspetto privato, non voleva insomma che si desse una rappresentazione distorta della sua famiglia; della figura di sua nonna ad esempio, semplice, sottomessa ma con grande dignità. Una donna che ha lavorato tutta la vita in silenzio e senza alzare la cresta anche dopo la consacrazione professionale di suo figlio. Il romanzo è una saga molto articolata ed è molto più lungo della mia sceneggiatura, ad esempio nel raccontare l’infanzia io mi sono concentrato esclusivamente sul passaggio dalle elementari alla prima media, perché il rischio di non poter continuare gli studi è qualcosa che ha riguardato anche me»
Il pensiero di Albert Camus in relazione alla guerra in Algeria è racchiuso nella sequenza della dichiarazione radiofonica. A lui sono stati attribuiti pensieri che non gli appartenevano sia da parte degli intellettuali di sinistra come da quelli di destra. Era favorevole all’abolizione del colonialismo come fatto antistorico, ma era anche a favore di una soluzione politica, e non di qualcosa che avrebbe condotto alla morte di innocenti. Il terrorismo non risolve nulla e la Storia ce lo ha insegnato.
A questo proposito uno dei momenti più significativi del film è la presa di posizione della madre che, ormai anziana, si rifiuta di raggiungere il figlio in Francia, rinunciando a mettersi al sicuro pur avendone la possibilità commentando “è bella la Francia, ma non ci sono gli arabi”».
Il primo uomo vincitore del premio della critica internazionale al Festival Toronto è stato però assente dalle altre prestigiose kermesse di Venezia, Cannes e Roma: «A Venezia non lo hanno voluto, lo avevano già selezionato e poi hanno fatto marcia indietro. Piera Detassis mi ha telefonato in seguito stupita dell’accaduto e proponendomi di portare il film a Roma, ma lì sono stato io a rifiutare. Toronto è stata un’idea del produttore, io ho acconsentito ma non ho partecipato al Festival. Se fosse dipeso da me avrei optato per Berlino. Io credo che un Festival abbia senso solo se il film poi esce a breve giro, altrimenti data la quantità e la varietà dell’offerta si rischia che passi inosservato.»
A proposito del montaggio: «Come per tutti i miei film il montaggio è stato molto rapido. Lo abbiamo iniziato quando ancora mancava una settimana alla fine delle riprese e abbiamo ritenuto che il materiale girato fosse già più che sufficiente. In questi casi io procedo sempre per elisione.»
Alla fine dell’incontro si parla dell’eventuale pubblicazione di un diario sulla affascinante lavorazione del film: «La mamma del piccolo Nino (Camus bambino) ha scritto in proposito un bellissimo racconto, corredato di foto che ha scattato lei e dei disegni fatti dal figlio. A mio avviso potrebbe essere materiale molto utile e interessante per creare degli extra quando uscirà il dvd, soprattutto dal momento che, per fare economia, non abbiamo realizzato materiale di backstage. »