C’è una sequenza nel nuovo, bellissimo film di Wes Anderson che induce nella tentazione di esser letta come una dichiarazione di poetica. La macchina da presa è immobile sul vagone di un treno, il Darjeeling Limited, con il quale i tre fratelli Whitman, protagonisti del film, aristocratici ed infantili nella miglior tradizione andersoniana, stanno attraversando l’India. Il treno parte e dopo qualche istante si ferma (!) e la macchina da presa fissa un altro vagone nel quale una giovane donna indiana – che uno dei tre fratelli ha sedotto sul treno – sta parlando con il compagno.
Improvvisamente ci accorgiamo che il treno è rimasto immobile e che l’illusione del movimento del mezzo è stata restituita da un reale movimento della macchina da presa, una veloce carrellata orizzontale, da un vagone all’altro. Un effetto ottico elementare, familiare per un qualsiasi spettatore/viaggiante che abbia gettato lo sguardo fuori dalla cornice del finestrino di un treno immobile verso un altro treno in movimento che, riproposto sullo schermo, provoca un corto circuito di immagini in movimento e insieme rivela la preziosa attenzione di Anderson verso una visionarietà del quotidiano (magari decorato con tratti retrò) che è terreno assai poco esplorato dal cinema contemporaneo. E se è vero che l’equazione cinema-treno ha radici antiche (di quelle antichità di cui un cinefilo snob come Anderson si nutre e nutre i suoi spettatori con compiacimento naif), che Bill Murray, businessman di cui non sappiamo nulla e in primis attore perde il treno del film e l’occasione di raccontarci la sua storia (sarebbe stata sicuramente bizzarra), che c’è un’altra sequenza meravigliosa nel senso letterale del termine che fa scorrere stanze, storie per l’appunto e paesaggi sugli stessi binari del Darjeeling, è significativo d’altra parte che l’effetto della scena sopra citata sia riprodotto attraverso un travelling, che è l’elemento fondante dello stile di Anderson.
Travelling come carrellata orizzontale certo, ma pure come idea di un movimento dello sguardo, di un viaggiare continuo attraverso lo schermo che negli ultimi due film accompagna in parallelo il fluttuare/scorrere delle immagini sull’acqua (Le avventure acquatiche di Steve Zissou) e il travelling proprio del treno.
Fin dagli esordi di Bottle Rocket e ancor più nel più “pieno” Rushmore e in maniera ormai “pienamente” definita nei Tenenbaum (con il consolidarsi di un budget che permette il moltiplicarsi di cose sullo schermo) Anderson offre la possibilità di una lettura orizzontale, verticale, obliqua del suo cinema. Come ci trovassimo a sfogliare le illustrazioni di un colorato libro per ragazzi ((Anderson sta lavorando da anni ad un film d’animazione, The Fantastic Mr. Fox, tratto dalle storie del disegnatore Roald Dahl.)) dal gusto tipicamente anglosassone (Anderson è indubbiamente il texano più british della storia del cinema), di una rivista radical chic dei settanta, di un album fotografico o di una copertina di un lp dei sessanta (di cui l’immaginario musicale è continuamente rievocato) impaginate sullo schermo secondo una riproposizione postmoderna, dinamica e sfuggevole della caoticità organizzata in profondità di campo da Jacques Tati.
Questa dinamicità dello sguardo-stile, accompagnata da una costante pienezza dell’immagine, ci sembra il tratto distintivo del cinema di Anderson, ancor più della comicità sottotono, dalle bizzarrie assortite e dell’umorismo stralunato che lo accomuna a certo cinema indipendente americano da Jarmusch a Jared Hess (Napoleon Dinamyte e Supernacho sono creature dello stesso immaginario snob / kitsch/ pop/ camp/ nerd/ weird).
In Darjeeling Limited l’idea del viaggio offre soprattutto l’occasione per portare all’estremo, grazie ai consueti collaboratori tecnici e ad un affiatato team di attori/collaboratori/co-sceneggiatori, questa consolidata vivacità stilistica. Carrellate spostano continuamente l’attenzione e lo sguardo su un personaggio o l’altro, su un dettaglio o su uno sfondo. Altrove lo spazio è re-inquadrato con zoomate improvvise, o lenti aggiustamenti della macchina da presa o mutato con veloci panoramiche a schiaffo. Quando la macchina da presa è immobile è il dettaglio a richiamare trasversalmente lo sguardo (un ipod che mixa satie ai rolling stones, un set di valige di Vuitton omnipresente che invade lo spazio ristretto dei vagoni come in un film dei fratelli Marx). Il decor – e pure la ricerca di scenografie naturali in armonia con quelle artificiali – ha qualcosa di maniacale nell’alternarsi di campiture di colori e geometrie di ogni tipo, illuminate da una fotografia che richiama il technicolor vivace di certo cinema dei tardi anni sessanta (Jerry Lewis, Blake Edwards, certe produzioni disneyane, i film beatlesiani di Richard Lester).
Imprigionati nei binari della narrazione, tra la morte di un padre e la rinascita spirituale della madre, con un rigido programma in mano a tappe da rispettare, da buoni turisti americani, ed un corollario di medicine indiane per sanare ogni genere di dolore, le tre figure al centro della storia vivono goffamente e ottusamente gli eventi, passano attraverso capricci di ogni sorta, accennano a racconti di un passato che rimane fuori campo o esprimono volontà che vi rimarranno, entrano nel film e ne escono con la velocità con la quale si percepiscono i viaggi. Quello che conta, che rimane, che permea l’immagine, sono le traiettorie delle figure ed il tono del racconto. Le traiettorie che, come ne Le avventure acquatiche di Steve Zissou, si fanno ora imprevedibili (là era la sequenza coi pirati, qua il flashback sul funerale del padre a spiazzare nel cambio di registro e di ritmo) ora sinuose, imitando le linee musicali, le mosse, la gestualità della tradizione cinematografica indiana (con svariati brani dalle colonne sonore dei film di Satyajit Ray) impazziscono fino a permettere che un treno si perda sui binari, fanno incrociare destini in superficie, suscitano sorrisi quando un portantino entra e esce dalla scena su un insolito mezzo di trasporto in un attimo di silenzio, lasciano assaporare ai tre fratelli la sensazione di una libertà inaspettata e forse non colta o colta per i pochi istanti di un ralenti. Il tono in The Darjeeling Limited, rispetto al brillante Zissou, che era così ricco di trovate genialoidi e bizzarie assortite (a cominciare dall’ittiologia inventata…), si fa nuovamente malinconico e salingeriano, ancor più sommesso del solito, specie nella seconda parte. Fuori campo incombe la vaga minaccia di una tigre mangia-uomini (di cartapesta) e donne meravigliose di cui gli eterni fanciulli di Anderson sembrano aver paura e nostalgia insieme. Ma quelle in ogni caso sono altre storie e forse ci sarà tempo e modo – sembra suggerire Anderson ((Lo ha già fatto con Hotel Chevalier, il cortometraggio che ne procede la proiezione, un prologo/spin off della storia principale.)) – di raccontarle, in un’altra occasione.