Home alcinema Il Villaggio di Cartone di Ermanno Olmi (Italia, 2011)

Il Villaggio di Cartone di Ermanno Olmi (Italia, 2011)

(Da questa parte l’incontro di Ermanno Olmi con la stampa: E’ necessario abbattere tutte le chiese, che siano religiose, culturali o laiche e riscoprire la nostra libertà) E’ una “prova d’orchestra” senza i suonatori e prima della fine dei tempi quella de Il villaggio di Cartone, l’ultimo film di Ermanno Olmi presentato fuori concorso a Venezia 68 e da domani Venerdi 7 ottobre 2011 nelle sale Italiane; opera chiusa nelle stanze di una chiesa in via di smantellamento; luogo sottoposto ad una sistematica desacralizzazione, mentre Michael Lonsdale, l’anziano sacerdote che ha assimilato la sua vita a quell’edificio, cerca di aggrapparsi all’altare, si ribella alla deposizione forzata della croce calata dal soffitto, fa morire in gola un kyrie come fosse un rantolo. Fuori, echi di una guerra civile e un gruppo di migranti che troverà rifugio nei seminterrati della canonica, fino a improvvisare una tendopoli all’interno della chiesa stessa. Lo sguardo di Olmi, come il tempo, si è fermato, ed è il risultato di un dissidio doloroso sulla fede, un dialogo intimo e incessante che ha attraversato parte dei suoi ultimi film con una visione del mondo e del sacro non riconciliata. Sembra che l’unico fuori campo possibile sia quello di un caos invisibile che spacca d’improvviso la vetrata del rosone, punta luci minacciose sulla porta d’ingresso, atterrisce con spari lontani; oppure l’immagine vitrea, imprigionata in una falda di tempo ripetuta, trasmessa da un vecchio catodo e che rimanda continuamente le immagini di una spiaggia deserta, con le onde del mare che trasportano un quaderno, un nuovo verbo che troveremo in seguito tra le mani di uno dei migranti, una nuova parola in lingua araba, che può farsi carne solo attraverso una diversa concezione di quello spazio. Se questa interiorizzazione ormai irreversibile del cinema di Olmi appare, nella sua disperazione, come un vero e proprio congelamento del tempo all’interno di un set gravido di simboli e di dialoghi che per certi versi rimandano alla scuola di Diego Fabbri (la collaborazione di Olmi con Gianfranco Ravasi, si fa sentire), il cinema del grande regista Bergamasco riesce ancora a creare uno spazio immaginario potente, nel rigore arcaico con cui si avvicina ad ogni singolo gesto, ad ogni elemento della scenografia, ai segni di un cinema che abbiamo dimenticato.

Exit mobile version