venerdì, Novembre 22, 2024

Abbandonati nello spazio. Perdere i sensi nel Cinema di Dario Argento – Pesaro 47

Vivian Sobchack nel suo saggio Breadcrumbs in the forest, Three Meditations on Being lost in space (Vivian Sobchack, Carnal Thoughts, embodiment and moving image culture, University of California Press 2004 ) esamina i limiti percettivi e quelli del linguaggio descrittivo tradizionale come perdita di se stessi nello spazio, alla luce di una prospettiva fenomenologica corporea e “incarnata” che superi la retorica fatta di segni, geometrie Euclidee e luoghi determinati da uno sguardo orientato.

Un nuovo sistema di anti-norme geografiche che con il viaggio impossibile e la perdita delle coordinate nello spazio della città Argentiana trova più di un’indicazione di percorso. La disseminazione di false soggettive, che già nel cinema di Bava padre spezza gli standard di durata e distanza rispetto ad un osservatore determinato, si apre nel cinema di Dario Argento ad un’opportunità di tipo Iperbolico dove il senso si estende non solo da linee di forza materiali ma investe gli oggetti e li cambia a partire dal movimento dell’osservatore. La mutabilità di perdersi in uno spazio mondanizzato non familiare, per la Sobchack va oltre la soggettiva estrema del flaneur, il cui movimento pone una distanza ben precisa tra gli stimoli esterni e il potere “autoriale” della sua percezione: in qualsiasi luogo il flaneur si trovi a vagare, si troverà esattamente li, grazie ad un atto dello sguardo che non gli permette di sorprendersi disorientato nello spazio.

Al contrario, l’esperienza Iperbolica, per come viene raccontata dai viaggi di Michael Asher ( Michael Asher, Impossible Journey: Two against the Sahara, London, Viking, 1998), è un grado zero che precede l’astrazione Euclidea e le coordinate oggettive dello spazio Cartesiano manifestandosi come visione incarnata negli oggetti vicina all’esperienza del mondo agita da un bimbo, prima ancora che la disciplina di forme e dimensioni organizzi il suo sguardo. Questo perdersi che è anche immagine di uno spazio che perde e riacquisisce di volta in volta significato, sfugge a qualsiasi ermeneutica con le stesse caratteristiche ambigue, indeterminate e prive di orientamento nella ricerca psicogeografica Debordiana.

Ivan V. Chtcheglov nel suo Formulaire pour un urbanisme nouveau ( Gilles Ivain, Formulario per un nuovo urbanesimo, In Guy Debord (contro) il cinema, a cura di Enrico Ghezzi e Roberto Turigliatto, Editrice il Castoro / Biennale di Venezia 2001 ) descrive l’ipertrofia di simboli, le sovrapposizioni urbanistiche incongrue, il cambiamento del paesaggio e soprattutto, lo spaesamento totale, come risultati estremi delle intuizioni architettoniche di De Chirico; l’assenza dell’oggetto nascosto che si fa presenza sensibile grazie ad una visione reiterata dello stesso identifica in modo suggestivo le increspature tra tempo e spazio che nel cinema di Dario Argento si rivelano all’esperienza dello sguardo.

La Detection irrazionale dei personaggi Argentiani costruisce una morfologia dello spazio a partire dalla perdita di coordinate, verso la dissoluzione del se in una geografia immaginaria; non è solo il riflesso interstiziale (Profondo Rosso), il particolare sonoro irriconoscibile (Non ho sonno e Il Cartaio), il dettaglio in-visibile in genere come ipovisione e svelamento impossibile mutuato dal cinema di Antonioni, quanto l’esperienza di uno sguardo che stratifica e fa collidere elementi di storia materiale (arti figurative, architettura) attraverso una curvatura del tempo.

Nell’intervista all’interno del bel volume collettivo dedicato a Dario Argento, pubblicato recentemente da Marsilio e curato da Vito Zagarrio ( Argento Vivo, Il cinema di Dario Argento tra genere e autorialità, a cura di Vito Zagarrio, Nuovo cinema/pesaro n. 66, Marsilio Editore 2008 ) il regista Romano dice: “Fin dall’inizio ho pensato che non ero costretto nella prigione della città – giriamo a Milano e devo vedere Milano. A me interessava la storia e la storia ambientata in certi punti. Quindi per me, saltare da un punto ad un altro, da una città ad un’altra […] era normalissimo. Ad esempio in Quattro mosche di velluto Grigio c’è una persona che cammina lungo una strada che è a Milano, prosegue e scende da una scala che è a Torino….”. Le città Argentiane fuori dalla logica urbanistica, per come le definisce Caterina Taricano ( ivi, Caterina Taricano, Sei Storie Torinesi, pag. 95) riprendendo un concetto di C. Grosso Ciponte sarebbero luoghi eminentemente cinematografici, spazi impossibili alla De Chirico.

Ma più che città fantastiche quelle di Dario Argento sono l’esperienza della perdita progressiva di un orizzonte univoco; progressione endogena al suo stesso cinema che con gli ultimi tre film (produzioni televisive escluse) si avvita intorno ad un radicale e imponente (neo)realismo Rosselliniano. La volontà di non predeterminare l’andamento del set attraverso una stesura analitica dello storyboard ( negli ultimi due film [….] non ho più fatto lo storyboard di tutto il film perché voglio provare a lasciarmi influenzare ogni giorno dall’atmosfera del set…, ivi, Aprire le finestre alle emozioni, Argento on Argento, intervista a Cura di Vito Zagarrio, pag 34 ) si sovrappone ad un’architettura della città distrutta e ricostruita attraverso il peregrinare dello sguardo, gioco falsificante e assolutamente realistico del perdere i sensi.

Essere nel mondo per il Cinema di Dario Argento implica ancora di più una relazione mobile del corpo attoriale con un orizzonte instabile. Catch her, if you can, provate a prenderla, ad afferrarla Asia nella Terza Madre (qui, su indie-eye cinema) , nella sua fuga dai set delle città mentre si fa risucchiare dalla periferia dell’occhio all’interno di un museo, dentro il vagone di un treno persa nella contemplazione delle luci del soffitto, nella discesa spiraliforme generata dal corpo soggettivo in un piano sequenza di 4 minuti che conduce a conseguenze estreme il disinteresse di Argento per le finalità logiche del plot.

I detrattori dell’ultimo Argento si alimentano grazie all’(im)permanenza di un miraggio tipico del suo cinema: la forma estrema di un estetismo visionario fraintesa ed equivocata come propellente strutturale.

Il buco nero che Vivian Sobchack identifica come la dissoluzione delle coordinate nello spazio, non avere la minima idea e conoscenza del luogo dove ci si trova, in una perdita totale di riferimenti matematici e fisico sensoriali, così che con i sensi non sia più possibile rivelare uno spazio anche solo Iperbolico, è un buco nero che attraversa tutto il Cinema di Dario Argento, contratto nella furia surrealista delle scene conclusive o dilatato nella percezione di uno spazio espanso che sfugge ad ogni sistema interpretativo.

Fatta a pezzi la mappa geografica, il buco nero nell’ultimo Cinema di Dario Argento si vede meglio, inclusa la fluida, iperbolica, vitale possibilità del difetto. È una scelta anarchica e selvaggia che fa collassare, come nelle sue città impossibili, passato, presente e futuro del Cinema Italiano. Niente è come sembra, e l’attualità dolorosa di film come Non Ho sonno, Il Cartaio o La Terza Madre esplode ferocemente nell’(in)attualità dei set; terre di nessuno, mondi spaccati in due dove è ancora possibile perdersi.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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