La distopia è una visione utopica della società rovesciata di segno, una chiave di volta perfetta per quel genere di narrazioni fantapolitiche antitotalitarie a cui appartengono romanzi come Il mondo nuovo di Aldous Huxley e pellicole tipo Brazil di Terry Gilliam. Nel film In time la fine degli anni dominati dal capitalismo rampante ha riversato problemi ancor più drammatici sulla popolazione: problemi che ruotano intorno alla struttura portante della durata e dello scorrere del tempo. Il regista e sceneggiatore neozelandese Andrew Niccol torna a parlare di futuri non troppo lontani sul modello di quel Gattaca-La porta dell’universo che nel 1997 segnò il suo applaudito esordio dietro la macchina da presa. Quindici anni dopo, Niccol scrittura giovani attori in ascesa del calibro di Justin Timberlake, Amanda Seyfried, Cillian Murphy e Olivia Wilde per impersonare personaggi condannati a rimanere esteriormente giovani fino alla morte: il loro tic tac biologico si ferma al compimento del venticinquesimo anno d’età. Tra gli esseri umani solo e soltanto una piccola elite può coltivare una naturale predisposizione per i tempi morti. Al contrario, tutti gli altri sono costretti a un’iper-mobilizzazione del loro corpo, cosicché – usando una metafora tanto cara a Marx – l’estenuante produzione lavorativa penetra nei pori della pelle. Insomma, si può dire che la massa proletaria è ridotta a condurre un’esistenza modulata secondo la massima oraziana del “carpe diem”. Il temerario Will Salas incarnato da Timberlake arriva a una presa di coscienza tale per cui decide di scardinare la condotta finora seguita dal governo e di procedere a una ripartizione temporale più equa. Similmente ad altre opere appartenenti allo stesso filone della science fiction, nel film In time vi è il motivo paramilitare, esemplificato dal continuo controllo cui sono soggetti i cittadini. La triade “visibilità, vigilanza e castigo” su cui discettava Michel Foucault nel suo libro del 1975 Sorvegliare e punire giocano perciò un ruolo determinante nell’opera di Niccol, sebbene qui non ci sia un teleschermo bidirezionale pari a quello presente nell’orwelliano 1984.
L’idea di partenza di trasformare in oggetto di culto non la personalità di un leader carismatico, ma frazioni di periodi temporali è degna di essere di essere raffrontata con i migliori scritti di Philip Dick. Tuttavia, la critica stringente che si potrebbe muovere al prodotto di Niccol è innanzitutto quella di aver materializzato sullo schermo troppi percorsi tematici (la divisione in caste insormontabili, il dissenso al sistema politico vigente, il controllo tassativo e la giustizia), tanto che alla fine la metafora straripa interminabilmente in zone extraterritoriali. In time è ascrivibile pure nella categoria “cinema spettacolare”, un’etichetta da attribuire al film se non altro per le varie sequenze d’azione che punteggiano l’opera. Peraltro, dette scene si rivelano agli occhi dello spettatore abbastanza semplici dal punto di vista stilistico e poco disinvolte. Essendo un’opera che presenta un’accezione temporale, sarebbe stato interessante se l’autore di S1m0ne avesse messo per una volta in disparte la tensione inautentica generalmente iscritta al cinema d’azione, manifestata nel puro movimento esteriorizzato, e avesse sperimentato qualcosa di diverso.