Questo articolo è parte di uno speciale dedicato a Inception di Christopher Nolan (Usa, Gb, 2010). Puoi Leggere Inception; Errabondi senza meraviglia di Michele Faggi, da questa parte.
In Inception convergono le tematiche e gli espedienti narrativi di tutto il cinema di Christopher Nolan, distillati nella loro accezione più pura (per la prima volta, non si è avvalso in fase di scrittura della collaborazione del fratello Jonathan o di altri sceneggiatori) e condensati in una struttura che ancora una volta si presta ad interpretazioni su molteplici fronti: specchio dell’animo del protagonista, marchingegno empatico che costringe in quegli stessi panni lo spettatore e libretto di istruzione per essere da quest’ultimo compresa e utilizzata nella maniera esatta. Il gioco di specchi viene applicato ancora una volta, e tutto in una volta, a giochi di prestigio, scene del crimine e ricostruzioni mnemoniche, a loro volta dimensioni concentriche che costituiscono sogni, contenuti in altri sogni, contenuti nello scrigno onirico dello schermo cinematografico. In un thriller d’azione che ha il respiro dell’ultima saga batmaniana, torna lo scassinatore Cobb, già inafferrabile demiurgo in Following (dal quale ritornano anche casseforti e portagioie, nascoste e violati contenitori emozionali), ma in questo caso strettamente imparentato con il Leonard Shelby di Memento: perseguitato dal senso di colpa per la morte della moglie, inventore e vittima del proprio metodo operativo. Vero e proprio illusionista dell’inconscio, Il Cobb interpretato da Di Caprio viene pagato per architettare i sogni altrui e penetrarvi allo scopo di sottrarre informazioni o immettervi un idea (“il più tenace dei parassiti”) , compiti per i quali è costretto ad esporre sé e i propri complici al rischio più spaventoso che corre chi ha il potere di costruire illusioni: rimanervi inestricabilmente intrappolato. La manipolazione del sogno o dell’allucinazione costituisce un ostinata ossessione della fantascienza contemporanea, ed è evidente come, oltre al proprio, Nolan finisca per convocare suggestioni proprie di moltissimo cinema moderno e contemporaneo: dalle inquietudini oniriche del Kubrick più astratto, agli incesti tra realtà e artificio di Blade Runner, passando per i vari gradi di espansione della mente che garantiscono i vari spinotti di Matrix, di Strange Days, dell’ultimo Cameron e del Cronemberg di eXistenZ. Quest’ultima categoria di riferimenti è attinente, non a caso, ad un cinema che porta avanti il tentativo di ibridare l’esperienza spettatoriale con quella videoludica. In questo senso, anche Nolan muove la sua fondata candidatura: la struttura a livelli successivi e ricorsivi (dei quali uno pare rifarsi con una certa limpidezza ad uno scenario di Call Of Duty: Modern Warfare), costruiti da un archittetto come enigmi da risolvere, esplorabili a propria volontà e abitati da simulacri interpellabili, costituisce una delle più accurate riproduzioni cinematografiche di videogame come Resident Evil, Metal Gear Solid o del più recente Heavy Rain, a loro volta mossi dall’ambizione di appropriarsi dell’esperienza del racconto di celluloide. Aldilà dei vari riferimenti convocati, Inception, per stuttura e posizione nella gerarchia filmografica del suo autore, può essere etichettato come un Inland Empire nolaniano: ctonico e ambizioso Kolossal dell’inconscio, esteso in diramate profondità piuttosto che su un livello di estensione cronologica, distribuendosi lungo svariate dimensioni di irrealtà che si innestano su un più breve segmento. Chiaramente ad ogni autore i propri strumenti di lavoro: se Lynch opera con la materia tenebrosa ed emotiva dell’assurdo psicologico, Nolan utilizza gli ingranaggi logici e i meccanismi geometrici del paradosso, riducendo il sogno, materia irrazionale per eccellenza, a metro scientifico. È proprio questa scoperta razionalità di un congegno tanto complesso e intricato che permette a Nolan di restare in equilibrio tra grandi incassi e approvazione critica, ed è inoltre l’elemento da cui scaturisce la sottile ma tenace componente disturbante del suo cinema: i piani di realtà e costruzione mentale, intersecandosi e confondendosi, sfuggono al controllo del ragionamento umano, dimostrandoci la fallibilità di ogni tentativo di ridurre a schema la natura paradossale del concetto stesso di realtà. Inception trova il suo modello esplicativo (immancabilmente citato in sceneggiatura) nei paradossi ottici di Escher, paragone perfetto e più calzante delle operazioni enunciative del regista anglo-americano: una rappresentazione ingannevole costruita tramite un’attenta osservazione matematica, inquadrata da una prospettiva che renda plausibile il paradosso che contiene . Una volta messi di fronte alla giusta angolazione visiva, l’illusione cade e il dedalo si dipana di fronte ai nostri occhi (come accade nell’esercitazione che nel film Arthur propone ad Ariadne) e l’equilibrio apparentemente perfetto della trottola cinematografica si spezza. Ma il punto di vista che ci serve ci viene continuamente e scientemente sottratto, qualcosa pulsa nel fuoricampo senza fare mai il suo ingresso, e pur sapendo che in qualche punto la struttura crollerà, non sappiamo dire con certezza verso quale conclusione. Nolan pratica un effrazione nei processi cognitivi dello spettatore, lasciandovi attecchire contemporaneamente l’idea che smonta il castello di carte e quella che lo cementifica. Ma l’espediente che differenzia ulteriormente questa sceneggiatura (come diverse altre del regista) da svariati prodotti che si incuneano in simili racconti labirintici, consiste nel perfetto inserimento nell’impianto diegetico del film di una sorta di “rete di salvataggio” che vanifica eventuali tentativi di smontarne la coerenza dell’impianto drammaturgico. Sarà infatti compito nostro rimontare i pezzi del rompicapo e riempire i vuoti nelle zone grigie lasciate dalla sceneggiatura, affidandoci al suggerimento di Cobb di compiere il nostro “leap of faith” e prendere la difficile decisione di abbracciare una verità piuttosto che un’altra, abbandonare l’ossessione della verifica e accettare la prospettiva del prisma che più ci è gradita. D’altra parte Nolan si è scelto a sua volta un ruolo, che interpreta ad ogni film con maggiore immedesimazione: quello dell’Autore Tirannico, che ci sballottola a suo piacimento nelle sue strutture labirintiche per poi riposizionarci nella nostra poltrona di spettatori attivi, soggetto e allo stesso tempo costruttori del racconto. Il colpo di scena, figura cinematografica un tempo preposta allo svelamento della verità, assume nella sua versione nolaniana, sclerotizzata e inflazionata, la funzione di alimentatore dell’ambiguità cognitiva, riservandoci non tanto l’accesso alla verità degli eventi narrati o una risposta agli interrogativi sollevati, quanto una fedeltà maniacale alla confusione che essi suscitano in noi (( Parafrasando e estendo il significato di “… non pas accès à la vérité de l’événement, mais fidélité au désarroi qu’il a suscité, et suscite encore”. Emmanuel Burdeau riguardo a Batman Begins, contenuto in Dans l’ombre du 11 Septembre, Cahiers du Cinema n. 603, Luglio/Agosto 2005, p. 34. ))