“Qualunque impressione faccia su di noi egli è un servo della legge quindi appartiene alla legge”. Le parole di Kafka tratte da Il Processo non si limitano a chiudere, a mo’ di epigrafe, una delle pellicole fondamentali del cinema tutto, italiano e non, ma racchiudono e riassumono, il principio esatto che sottende a quel congegno perfetto che è Indagine Su Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto. Il dispositivo kafkiano viene passato da parte a parte, ribaltato, riformulato, riscritto: lo sguardo non è più quello di K. ma al contrario: K. diviene lo spettatore inerme davanti al dispiegamento delle tecniche dell’oppressione della macchina istituzionale. K. è lo studente (“cittadino democratico”) all’interrogatorio, è lo stagnaro (l’enorme Salvo Randone), è lo spettatore. L’empatia col protagonista è negata sin da quei primi adamantini istanti iniziali, che sono di cinema allo stato puro: inquadratura fissa, ingresso del personaggio lateralmente, poi carrello in diagonale e lo sguardo di Volontè fisso in camera a scrutare, a scrutarci.
La questura è Il Castello, la roccaforte solo apparentemente impenetrabile (chiunque può entrare se lo vuole), dove ogni cosa è decisa nella piena inconsapevolezza di chi ne sta al di fuori; che viene aperto poco alla volta, svelando un luogo tanto chiaro, abbagliante d’intonaci immacolati e finestroni a tutta parete, quanto sinistro; retto da ferree scale gerarchiche strutturate sulla base di nette e distinte specializzazioni e competenze. I luoghi del potere (un termine oscuro ed inquietante che verrà ripetuto, come un mantra, più e più volte lungo la pellicola); luoghi percorsi da uomini burocratizzati, grigi, piccoli, che sanno “di caserma, d’archivio, di lucido da scarpe” ma che la funzione che ricoprono rende onnipotenti. Che tanto più sono influenti, tanto più il loro nome è bene che venga omesso, dimenticato, segretato: Gian Maria Volontè (non interpreta ma) trasmuta nel dottore, un personaggio di cui mai verranno svelate le vere generalità, che porta già nel suo anti-nome una meschineria impiegatizia, retaggio antico di un’espressione che rimanda ad un mondo di opportunistiche reverenze, di divari sociali incolmabili, di titoli acquisiti in grazia del proprio ceto. Un personaggio enigmatico ed emblematico al tempo stesso. Commissario scelbiano a capo della sezione omicidi della polizia di Stato, appena promosso alla dirigenza della sezione politica, dopo aver commesso l’omicidio della propria amante, Augusta Terzi (Florinda Bolkan), mette in atto il progetto, solo in apparenza incomprensibile, di ricondurlo senza ombra di dubbi a se stesso, attraverso la disseminazione d’indizi che lo incriminino incontrovertibilmente e “non per fuorviare le indagini ma per provare… per provare… per provare…” la propria “in-sos-pet-tabilità” di uomo di potere. Di potere in forma (in)umana. La pellicola diviene così, certo, un’allegoria dei rapporti impari tra uomo comune e uomini di Stato, tra crimine e discrimine, ma assume, anche, in ogni suo più piccolo dettaglio, sia narrativo che espressamente visivo, il carico della disamina della sua contemporaneità; cogliendo tutti i sentori politici che animavano il periodo (il film fu girato nel ’69), osservandone e leggendone attentamente gli sviluppi, giungendo ad anticipare il violentissimo dibattito sul ruolo delle forze di polizia, sulle “trame nere”, sulle devianze interne allo stato democratico, che dalla strage di Piazza Fontana, passando dall’omicidio dell’anarchico Pinelli, accompagnò l’ingresso alla stagione degli anni di piombo (e con picchi di lucidità che emanano effluvi di vera e propria divinazione: quando il dottore ammette: “…io per esempio: voto socialista”; quando il gruppo di contestatori in cella si spacca in piccoli gruppi divisi, ecc.). Tutto con una nitidezza irraggiungibile, tale da divenire apologo universale e fuori dal tempo, riattualizzabile, e questo purtroppo, in eterno. (continua nella pagina successiva...)