Il nuovo Clint Eastwood sembra arrendersi ad una forma narrativa meno impervia, più solare; con una certa disattenzione e con gli occhi tappati potremmo dire, maggiormente conciliante, ma è semplicemente una sensazione restituita da una visione marcata stretta, forse da appassionati dell’ultima ora e sulla sola superficie di Invictus, film in apparenza meno seduttivo tra quelli più recenti del regista Americano, ma puramente Eastwoodiano nel rappresentare la discontinuità di un mondo attraversato da fratture che, diversamente da film come Million Dollar Baby, Changeling e sicuramente Gran Torino, cerca la via verso una certa idea di invisibilità in modo meno accattivante ma se si vuole ancora più impalpabile, rigoroso e minimale.
Fin dai primi minuti, quel senso di minaccia capace di generare ferite percettive, si manifesta come un motto di spirito, una forma del vedere che si apre ad una continua rigenerazione, la stessa dei megafoni malfunzionanti in A perfect world o delle doppie, triple verità in Mystic River. Invictus sembra andare oltre nella distruzione di quel senso escatologico ben presente solo in chi vede nella tragedia l’unico elemento di forza del suo cinema; quel senso di terrore che sembra preconizzare morte ovunque viene tutte le volte disinnescato da uno sguardo laico e consapevole; i giornali lasciati da un furgoncino notturno, il corpo di Morgan Freeman abbandonato per terra, inquadrato con un’immagine di semplice e fulgida bellezza, il bambino africano che fuori dallo stadio maneggia nella sua borsa, il collante corale e allo stesso tempo multiforme, complesso, stratificato, dei volti fuori e dentro dall’arena agonistica che rappresentano quello di un paese ferito a morte, l’aereo che si spinge troppo in basso sulla folla, in una delle sequenze più belle e ambigue di tutto il film; i corpi dei giocatori, filmati a mio avviso in modo superbo, semplice, tribale. Invictus è un’idea intima e dolorosa di Storia che nell’idea di speranza annienta il cinismo stolido di qualsiasi funzionale biopic.